capitolo I

Ecologia delle relazioni

Rimane sempre vero, a qualsiasi età, che quando si esce nel mondo
è meglio tenersi per mano e rimanere uniti.

Robert Fulghum,

Tutto quello che mi serve sapere l'ho imparato all'asilo

Per crescere un bambino serve un intero villaggio

I neogenitori di oggi sono nati, grossomodo, negli anni Settanta e Ottanta, quando ancora si andava a scuola a piedi, a frotte o, come grande conquista, in bicicletta da soli o con fratelli o sorelle maggiori. Non è un tempo così lontano e, a ben guardare, i nostri nonni potrebbero raccontarci cose dell'altro mondo. Loro probabilmente andavano a scuola percorrendo strade non asfaltate, portando a tracolla cartelle di cuoio o di cartone.


Eppure le immagini che scorrono nella mia mente, quando penso al percorso che facevo per andare alla scuola elementare, sono incredibilmente anacronistiche: dopo aver suonato i campanelli dei vicini, io, mio fratello e i nostri amici passavamo davanti al fornaio, che aveva il cancello del cortile sempre aperto. Attraversavamo la sua corte e – se ci andava bene – rimediavamo un panino all'uvetta ancora caldo. In quindici minuti eravamo a scuola: il percorso attraversava una parte del nostro quartiere e poi quella che noi chiamavamo “la stradina”, una strada sterrata più bassa rispetto al livello della carreggiata e che ci portava dritti alla nostra meta.


Alle 12,30 finivamo e rientravamo a casa. La maggior parte delle mamme del vicinato non lavorava o lavorava part-time e aveva tempo per seguire i bambini. Nel pomeriggio, dopo i compiti, uscivamo in giardino o in strada a giocare: era una gran seccatura dover interrompere le partite di pallavolo o di calcio, quando qualche auto doveva passare. Alcuni ragazzi, poco lontano, tiravano persino la rete da tennis da un capo all'altro della strada.


Chi ci controllava? Con quale spregiudicata incoscienza i nostri genitori ci mandavano a scuola da soli, senza controllo alcuno, e ci lasciavano giocare per le strade?


In apparenza eravamo molto liberi, ma il fatto è che accanto a noi, nel nostro percorso mattutino e in tutte le attività che svolgevamo di pomeriggio, eravamo in qualche modo protetti da una rete. Lo sguardo del fornaio o del vigile per noi era come lo sguardo dei genitori. Camminando per andare a scuola, o nei lunghi pomeriggi passati al parco, eravamo tutelati dal tacito controllo di un'intera comunità: insegnanti, genitori, preti, capi scout, ma anche l'edicolante di quartiere o il fruttivendolo avevano lo stesso atteggiamento, lo stesso approccio alle cose.


Un Fiordifragola bastava, insomma. Il secondo, il barista di quartiere, non me l'avrebbe mai dato. Anche lui era un padre e aveva un ruolo, che giocava con i propri figli e con quelli altrui. E la stessa cosa valeva per il pacchetto di figurine, per le caramelle o per la partita a flipper.


Sono cresciuta in una piccola cittadina di provincia, dove questa compattezza si è gradualmente sfaldata. Forse nelle grandi città era diverso già allora e i miei coetanei, da adolescenti, avevano molto più pelo sullo stomaco.


Quel tipo di comunità, che guardava nella stessa direzione per far crescere i bambini, si è man mano polverizzata. Oggi le persone che abitano quelle stesse strade sono barricate in giardini recintati, dotati di siepi e di basculanti elettrici. Persino il fornaio ha chiuso il suo cancello.


Oggi qualunque genitore dotato di buon senso non lascerebbe il proprio bimbo giocare da solo al parco o per la strada, soprattutto in periferia: in giro si va con la mamma o il papà (o i nonni o la baby sitter) e a scuola pure. Al parco si fa amicizia mentre per strada è molto improbabile, perché le strade ormai appartengono solo alle auto. C'è più attenzione alla sicurezza e questa è una cosa saggia e positiva, ma è rivolta quasi solo alla propria famiglia. Non accettiamo che il panettiere “controlli” nostro figlio e a volte neppure l'intervento e il giudizio di chi è deputato a farlo, come gli insegnanti. Viviamo un isolamento crescente e una grande diversificazione all'interno della stessa comunità di persone.


Per questo motivo anche le scuole e le agenzie educative che accompagnano le famiglie nella crescita dei figli sono molto differenziate, al pari delle opinioni, dei redditi, delle professioni, dello stile di vita di ciascuno.


Non sto dicendo che una volta non ci fossero divergenze di opinioni o di conti in banca. Anzi, forse erano più netti e manifesti, e questo era dato per scontato. Ma i valori, quelli che portano avanti il mondo, che guidano l'educazione, che rendono compatta una comunità erano sostanzialmente accettati e condivisi.


L'isolamento delle famiglie è sempre più diffuso ed evidente e le paure sono assolutamente giustificate: le strade sono più trafficate, inquinate e pericolose, ai negozi di quartiere si sono progressivamente sostituiti supermercati e centri commerciali, che si raggiungono solo in auto. Io me lo ricordo bene quando abbiamo smesso di andare da Toni a prendere il prosciutto senza conservanti per iniziare ad acquistare pacchi famiglia di qualunque genere nel primo supermercato della nostra città: era più conveniente, per noi pure più vicino, c'erano le offerte, il parcheggio grande e la cassiera veloce.


A questo si aggiunge la sempre più diffusa mobilità: sono in aumento le famiglie che per motivi di lavoro si spostano, che sono costrette a inserirsi in ambienti nei quali non hanno legami affettivi e che si trovano a dover costruire da zero le loro relazioni sociali.


Inoltre ci sono in giro un sacco di stranieri: famiglie africane, sudamericane o dell'est europeo, con due o tre bambini in fascia o per mano, che si arrangiano come possono per non rimanere completamente tagliate fuori. Chissà perché mai sono venuti qui gli africani… loro che, nei loro villaggi, crescevano i bambini assieme a tutta la comunità, e il figlio di uno era figlio di tutti.


Possiamo imparare che “per far crescere un bambino ci vuole un intero villaggio” come afferma un loro noto proverbio, uno stimolo per guardare con coraggio al futuro.


La separazione, l'isolamento… io li sento. Il fatto è che è molto difficile fare paragoni con la vita che si viveva venticinque o trent'anni fa. Viviamo qui e ora, e le stesse dinamiche non sono certo replicabili perché è cambiata la società, le opportunità sono differenti, e anche il modo di vivere delle famiglie. Il tempo a disposizione per le relazioni è davvero poco: le giornate sono piene di impegni, si corre moltissimo e si taglia sulla vita sociale: quante volte mi capita di passare settimane o addirittura mesi senza riuscire a incontrare persone amiche che desidererei vedere. Ispirarsi agli aspetti positivi di quel passato ormai sfilacciato può essere una possibilità per costruire il nostro modo di fare comunità, che abbia radici solide e che sia permeato da incontri, accoglienza, sostegno, solidarietà, ma che guardi in faccia al futuro con positività e speranza, puntando in alto, cercando di comprendere come possiamo cambiare a piccoli passi, quale strada possiamo percorrere per fare in modo che il nostro territorio non diventi sempre più anonimo e sterile, ma sia fertile e ricettivo perché lo sono le persone che lo abitano.