Negli ultimi tempi, camminando per i corridoi della scuola superiore di mio figlio durante l’ora del pranzo,
sono rimasto colpito dalla sensazione di trovarmi in un contesto molto simile a quello dei corridoi e delle mense delle prigioni minorili nelle quali
avevo lavorato. La postura, i gesti, il tono, le parole, e l’interazione fra coetanei che osservavo in questa calca di adolescenti, tutto esprimeva
una strana e innaturale invulnerabilità. Questi ragazzi sembravano impossibili da ferire. Il loro contegno rivelava una sicurezza, persino una
spavalderia smargiassa che sembrava inattaccabile e superficiale al tempo stesso.
Il primo valore imposto dalla cultura dei pari è quello di essere “cool”, [di fare i “fichi”, N.d.T.], di caratterizzarsi per una completa assenza di apertura emotiva. I più stimati nel gruppo dei pari ostentano una calma sconcertante, non mostrano quasi alcuna paura, sembrano immuni dalla vergogna, e devono mormorare frasi del tipo “Chi se ne frega!”, “Frega niente!”, “Affari loro!”.
La realtà è piuttosto diversa. Gli esseri umani sono i più vulnerabili (dal latino vulnerare, ferire) fra tutte le creature e non solo fisicamente, ma anche psicologicamente. Cos’è allora che può rendere conto di una tale discrepanza? Come possono giovani esseri umani, di fatto tanto vulnerabili, apparire esattamente l’opposto? La loro durezza, il loro atteggiamento “fico”, sono posticci o sono reali? È una maschera che ci si può togliere una volta giunti in un porto sicuro, oppure rappresenta il vero volto dell’orientamento ai pari?
Quando, per la prima volta, mi imbattei in questa subcultura dell’invulnerabilità adolescenziale, pensai che fosse solo un atteggiamento. La psiche umana può sviluppare difese formidabili contro un consapevole senso di vulnerabilità, difese che si radicano nel circuito emotivo della mente. Preferivo credere che questi ragazzi, se ne avessero avuto la possibilità, avrebbero rimosso la loro corazza e rivelato il lato più tenero, più genuinamente umano. In alcune occasioni questo si rivelò vero, ma più spesso dovetti invece constatare che l’invulnerabilità degli adolescenti non era finta o presuntuosa. Molti di questi bambini e ragazzi non provavano sentimenti di dolore, non sentivano alcuna ferita. Non voglio dire che non potessero essere feriti anche loro, ma finché si trattava dei sentimenti che essi provavano consciamente, non vi era alcuna maschera da togliere.
I ragazzi capaci di provare emozioni come la tristezza, la paura, la perdita e il rifiuto nasconderanno spesso questi sentimenti ai compagni per evitare di esporsi al rischio di essere ridicolizzati e attaccati. L’invulnerabilità è un camuffamento che adottano per mescolarsi alla folla, ma a cui presto rinunciano in compagnia di coloro con i quali sanno di poter essere se stessi. Non sono questi i ragazzi che mi preoccupano di più, malgrado io abbia senz’altro una preoccupazione per l’impatto che un’atmosfera di invulnerabilità avrà sul loro sviluppo e apprendimento. In un tale contesto la genuina curiosità non potrà prosperare, le domande non potranno essere poste liberamente, l’entusiasmo schietto per la conoscenza non verrà espresso. È un ambiente nel quale non si possono correre rischi e dove la passione per la vita e la creatività non trovano sfogo.
Ma i ragazzi più a rischio di danni psicologici e più profondamente coinvolti sono quelli che aspirano a essere duri e invulnerabili, non solo a scuola ma in generale. Costoro non possono indossare e togliere la maschera a piacimento. La difesa non è qualcosa che essi fanno, bensì qualcosa che essi sono. Questo indurimento emotivo è più evidente nei delinquenti e negli appartenenti alle bande o nei ragazzi di strada, ma rappresenta anche una dinamica significativa della varietà di orientamento ai coetanei che si ritrova quotidianamente nella tipica famiglia americana.