Molti adulti dai quarant’anni in su ricordano un’infanzia in cui il villaggio degli attaccamenti era una realtà.
I vicini si conoscevano l’un l’altro e si facevano visita. I genitori degli amici potevano esercitare il ruolo di genitori succedanei per i figli
altrui. I bambini giocavano per strada sotto lo sguardo protettivo e benigno degli adulti. C’erano i negozi di quartiere o di paese dove si
acquistavano i generi alimentari e gli attrezzi per la casa, il pane, i dolci e tutto il resto, e dove i negozianti erano molto più che addetti senza
volto in catene di supermercati e centri commerciali dove si vendono prodotti industriali di massa. Proprio come il Signor Hooper della serie
televisiva “Sesame Street”, erano individui conosciuti e persino amati. I membri della famiglia estesa – zii e cognati – erano in regolare contatto
reciproco e, in caso di necessità, avrebbero potuto sostituire i genitori nell’accudimento dei bambini. Non che fosse un mondo idilliaco –
nell’esistenza umana è cosa ben rara – ma c’era un senso di radicamento, di appartenenza e di connessione che serviva da matrice invisibile nella
quale i bambini maturavano e acquisivano il proprio senso del mondo. Il villaggio degli attaccamenti era un luogo di orientamento agli adulti dove la
cultura e i valori venivano trasmessi verticalmente da una generazione all’altra e dove, nel bene o nel male, i bambini seguivano la guida dei
grandi.
Per molti di noi, il villaggio degli attaccamenti non esiste più. I puntelli economici e sociali che erano di supporto alle culture tradizionali sono spariti. Sono scomparse quelle comunità solidali, dove le famiglie estese vivevano a stretto contatto, dove i bambini crescevano fra mèntori adulti che lavoravano vicino casa, e dove le attività culturali tenevano unite le diverse generazioni. Molti di noi devono condividere il compito di allevare i propri figli con adulti mai visti prima. La maggior parte dei bambini nordamericani lascia le proprie case quasi ogni giorno per andare in luoghi dove adulti con cui non hanno alcuna relazione di attaccamento si assumono la responsabilità di accudirli. Tenere i bambini a casa per molti di noi non sarebbe fattibile. Se vogliamo riprenderci i nostri figli, o evitare che si orientino ai coetanei, abbiamo solo un’altra possibilità: ri-creare villaggi di attaccamento all’interno dei quali crescere i nostri bambini. Forse non saremo in grado di rimettere insieme i pezzi di Humpty Dumpty, e certo non sarà possibile rimodellare strutture economiche e sociali ormai desuete, ma possiamo ugualmente fare molto per facilitare le cose a noi e ai nostri figli.
Avere un tetto sopra la testa non vuol dire sentirsi a casa, e il problema dei bambini orientati ai coetanei è che, pur vivendo ancora sotto il nostro stesso tetto, non si sentono più “in famiglia”. Lasciano il nostro tetto per sentirsi “a casa” con i loro compagni. Usano il nostro telefono per chiamare “a casa”. Vanno a scuola per stare “a casa” con i loro amici. Hanno “nostalgia di casa” quando non sono in contatto reciproco. Il loro istinto a tornare verso casa è stato sviato e li spinge gli uni nelle braccia degli altri. Anziché preferire la dimora dei genitori, gli adolescenti orientati ai coetanei diventano nomadi, trascinandosi in gruppi o incontrandosi nei centri commerciali. La loro dimora sarà pure il luogo dove abitano, ma il loro sentirsi a casa non è più insieme a noi.
Solo nel contesto di un villaggio di attaccamenti possiamo creare delle case per i nostri figli nel vero senso della parola. La casa e il villaggio sono entrambi il frutto dell’attaccamento. Ciò che rende tale un villaggio è la connessione fra le persone che ci vivono. Le connessioni sono anche ciò che dà vita alla casa, sia in riferimento alla casa stessa, sia alle persone che ci vivono. Ci sentiamo davvero “a casa” solo con coloro a cui siamo legati.
Solo quando un bambino si sente a casa con coloro che se ne prendono cura il suo potenziale evolutivo può realizzarsi appieno. Aiutare un bambino a sentirsi “in famiglia” con gli adulti a cui lo affidiamo è un tutt’uno con il compito di creare un villaggio di attaccamenti nel quale farlo crescere. Nelle comunità tradizionali di attaccamento un bambino non era mai costretto a “lasciare la sua casa”; era a casa ovunque andasse. Anche i bambini di oggi non dovrebbero essere costretti a lasciare le proprie case, o almeno il senso di essere a casa con gli adulti che li accudiscono, finché non siano abbastanza maturi da sentirsi a casa con se stessi.
Creare un villaggio di attaccamento è possibile, basta avere la giusta visione e iniziativa. Come per l’attaccamento in sé, la costruzione del villaggio deve diventare un’operazione consapevole. Non c’è ragione di struggersi per ciò che ormai non esiste più, ma abbiamo invece tutte le ragioni di ripristinare ciò che manca.