Prefazione

di Casilda Rodrigáñez Bustos1

Credo che noi donne stiamo cominciando a prendere in mano la responsabilità della nostra maternità. Non c’è da meravigliarsene, trattandosi di una tappa molto importante della nostra vita sessuale nonché di uno degli eventi emotivi e intimi più importanti della nostra esistenza, che spesso ci “cambia la vita”, ci sorprende e ci sconvolge in modo apparentemente incomprensibile. Vogliamo recuperare la saggezza ancestrale e la capacità del nostro corpo di partorire e di allevare le nostre creature, e vogliamo inoltre stabilire un dialogo con la medicina. Questo libro ne è un valido esempio.


Da un lato la medicina, con tutti i suoi progressi, offre grandi possibilità per consentire una buona nascita. Ma dall’altro tali progressi sono stati raggiunti senza tener conto del fatto che nascere e partorire sono un atto che appartiene alla sfera della sessualità e dell’intimità di due persone. La medicina si è concentrata su come ottenere un parto e una nascita i più sicuri possibili, ignorando tuttavia tutto ciò che entra in gioco nella sfera emotiva e psichica della madre, del bambino e fra entrambi questi soggetti. Questo è stato il grande errore, poiché la fisiologia del parto dipende dallo stato emotivo della madre. Si perde quindi la prospettiva dell’autoregolazione del processo del parto, nel quale l’aspetto psicologico, quello sessuale e quello fisiologico vanno di pari passo e si interviene sulla disfunzione del processo aggravandola invece di tentare di ristabilirla. La medicina dovrebbe intervenire solo in presenza di parti problematici, non come norma protocollare, e in tal caso sempre con l’obiettivo di tentare con tutti i mezzi di ristabilire il processo naturale fisiologico, il che significa considerazione e rispetto per quella stretta unione fra la sfera emotiva, quella psicologica e quella fisiologica del corpo della donna; in altre parole, rispetto verso l’integrità e l’intimità della donna.


Come si riferisce in questo libro, i progressi della chirurgia del parto cesareo offrono apparentemente un modo sicuro e rapido per nascere. Questo, che avrebbe potuto essere un magnifico risultato per i parti veramente a rischio o impossibili come quelli che presentano una placenta previa, si è convertito in una motivazione per ridurre ancora di più le possibilità di parto fisiologico e di recupero della capacità del nostro corpo di partorire.


Credo che l’abuso e il modo irrispettoso (che solitamente vanno di pari passo) del cesareo come apice della medicalizzazione normalizzata della maternità, abbia messo noi donne davanti a un bivio ineludibile di fronte al quale non possiamo rimanere impassibili. È come la goccia che fa traboccare il vaso. Perché il fenomeno dell’abuso generalizzato del cesareo mette in questione la medicalizzazione normalizzata della maternità che l’ha generata.


Se ci pensiamo bene, il cesareo comincia quando la donna va dal ginecologo al primo controllo prenatale e pone la sua stessa maternità sotto la direzione medica. È proprio nel momento in cui la fiducia nel proprio corpo si trasferisce nelle mani della medicina che inizia il cesareo. Sono convinta che siamo in un momento di recupero della maternità e questo richiede la creazione di una cultura nuova della maternità, la quale sappia riconoscere che la “direzione” del processo di maternità viene condotta dal corpo stesso: il corpo inteso non come contenitore asettico, bensì come unità psicosomatica, in cui l’aspetto fisiologico, quello sessuale e quello emotivo della donna sono un tutt’uno.