CAPITOLO I

Breve storia del cesareo

Sognavamo di partorire i nostri figli molto prima di rimanere incinte. Forse dal giorno in cui ci è arrivata la prima mestruazione, o prima ancora. “Sei una donna, ormai”, ci hanno detto. E, in fondo, sapevamo che questa sentenza racchiudeva un tesoro, una forza, una promessa: un giorno potremo dare alla luce. E, inevitabilmente, la fantasia: partorire, procreare, allattare. Immagini che portiamo nel nostro inconscio sin da quando eravamo molto giovani, sin da quando eravamo bambine.


Siamo cresciute, abbiamo imparato, abbiamo vissuto e, a un certo punto, abbiamo amato. Desideravamo un figlio, o forse no. Siamo rimaste incinte. Ci siamo sorprese. Siamo ingrassate, ci siamo arrotondate, il nostro corpo è stato sconvolto… e abbiamo sognato di nuovo. Abbiamo sognato di partorire. Partorire con amore, partorire velocemente, accovacciate o sdraiate, in casa o all’ospedale, con nostro marito o con nostra sorella, gridando o in silenzio, sotto la luce delle lampade o nella penombra delle candele. Gemendo di dolore o anestetizzate. Con paura o ridendo, ma sempre, alla fine, con un abbraccio, con un bambino che piangeva e che era nostro figlio, con le nostre lacrime nel vedere finalmente il suo viso e poterlo annusare.


Tuttavia, quasi nessuna di noi ha immaginato che il proprio figlio nascesse con un cesareo. Noi donne abbiamo solitamente pochi dubbi sulla nostra capacità di partorire. Possiamo temere il dolore del parto o che succeda qualcosa di brutto al bambino, ma pochissime di noi immaginano che il proprio bambino non potrà uscire dalla vagina e che, al contrario, dovrà uscire dalla pancia.


Non immaginavamo che sarebbe stato un cesareo. Non abbiamo mai sognato di svegliarci sole in una sala operatoria, gelate dal freddo. Con la pancia vuota e cucita, intontite dai sedativi e dal dolore, aspettando che si avvicini l’infermiera per poter chiedere “E mio figlio? E mia figlia? Dov’è? Cosa è successo?” Sforzandoci di uscire dal sonno senza immagini dell’anestesia, tentando di non ricaderci. “Dov’è? E mio marito? Quando li potrò vedere? Posso bere dell’acqua?” E dentro di noi una ferita indescrivibile, un dolore cieco, sordo, che non sappiamo dove sia né che cosa sia. Un dolore che non identifichiamo, che non avevamo mai provato prima. “Sarà la ferita.” È la ferita. La ferita emotiva.


Ci sono molti tipi di cesareo: urgenti o programmati, in anestesia generale o senza un’anestesia efficace, alla trentesima settimana di gravidanza o alla quarantaduesima e mezzo, gioiosi o terrificanti, necessari o inutili, rispettosi o umilianti. L’intervento clou della chirurgia moderna – quello che potrebbe salvare più bambini e che, purtroppo, dato l’abuso che se ne fa, può causare un dolore più grande – ammette queste e molte altre varianti.


Da intervento eccezionale che si eseguiva solo dopo la morte della madre durante il parto nel tentativo disperato di tirare fuori il bambino vivo, il cesareo si è trasformato nel modo di nascere di un bambino su quattro in paesi come la Spagna, gli Stati Uniti o il Messico1. Quando una madre si chiede dopo un cesareo “Perché a me?” o “Era necessario?” non vi è mai una sola risposta. Forse non vi è nemmeno una risposta. Ma conoscere la storia del cesareo, che è anche quella dell’ostetricia, può fare un po’ di luce sui motivi per i quali, oggigiorno, una donna su quattro dia alla luce mediante cesareo. Come siamo arrivati a questo punto?