CAPITOLO XI

Le mani e il cuore, gli strumenti dell'ostetrica

Le nostre mani sanno curare, muovere emozioni e rassicurare e, se occorre, sanno stare in silenzio, dietro la schiena.

Quella dell’ostetrica è una professione fino a poco tempo esclusivamente femminile, svolta per lo più al di fuori del contesto ospedaliero, in uno dei momenti più importanti e delicati della vita di una donna. Le ostetriche non avevano altre armi se non la propria competenza, saggezza, abilità e… sangue freddo. Ma soprattutto avevano fiducia nelle risorse del corpo femminile. Conoscevano l’arte di sostenere e incoraggiare, senza imporre nulla, senza interventi e visite ripetute: il modo migliore per allontanare la paura di non farcela nei momenti cruciali del parto.


Un tempo le ostetriche rispettavano la regola delle tre P: pazienza, pazienza, pazienza, prudenza, prudenza, prudenza e ancora pazienza, pazienza, pazienza. Convinte dell’integrità e della sacralità del corpo femminile, per evitare lacerazioni durante il parto, alle forbici per l’episiotomia preferivano il paziente sostegno del perineo. Più che alle macchine, alle ecografie e ai monitoraggi fetali, si affidavano al tatto e all’udito. “I parti avvenivano tutti a casa, si ricorreva all’ospedale solo di rado perché la mutua allora pagava solo quando il parto si presentava difficile. In tutti gli altri casi alle ostetriche veniva consegnato il cosiddetto “pacco ostetrico”, un vero e proprio pacchettino che conteneva: cinquanta grammi di alcool, fascettine di garza ed elasticini per legare il funicolo. Avevamo in dotazione una strumentazione semplice: uno stetoscopio, una vecchia trombetta con cui si ascoltavano i battiti del cuoricino del nascituro, un paio di pinze per tagliare il funicolo, un paio di forbici per tagliare, le “grappette” per le lacerazioni del perineo. Ricordo ancora le forti emozioni che provavo. Quando, dopo la nascita di un bambino, uscivo fuori dal portone di casa e fuori stava sorgendo l’alba; mi sedevo sui gradini freddi davanti al portone, spesso mezzi rotti, e mi fumavo una sigaretta”1.