Tutte le mamme, ovunque partoriscano, vorrebbero essere trattate con gentilezza, amore e rispetto. Quando
aspettavo Sara e Leo, mi sentivo forte, potente, al centro del mondo. Ma, a volte, mi sentivo anche fragile e insicura. Nella mia pancia stava
crescendo un bambino, stavo per trasformarmi da figlia in madre. Insomma, dovevo crescere! Mi chiedevo se sarei stata capace di affrontare il dolore
del travaglio, mi domandavo chi mi avrebbe assistito in quei difficili momenti. Ma anche se sarei stata una brava mamma, se avrei avuto la capacità di
gestire un essere umano piccolo e indifeso, se sarei stata in grado di capire e soddisfare tutti i suoi bisogni, le sue legittime richieste. Fino a
quel momento avevo soddisfatto solo le mie esigenze, ero stata l’unica protagonista della scena. Ma quando ho scoperto di essere incinta di Sara, è
come se l’intero universo si fosse capovolto. In un attimo ho sentito che avrei dovuto fare un passo indietro, riposizionarmi. Insomma, mettermi al
servizio di quell’esserino che stava crescendo dentro di me.
Ho sempre preso molto sul serio il mio ruolo di mamma. Non per un posticcio senso del dovere o per soddisfare le altrui aspettative, della famiglia, degli amici, della società. Più semplicemente, qualcosa mi diceva che era giusto così. Mi sentivo come una leonessa che doveva proteggere a tutti i costi i suoi cuccioli da tutto ciò che avrebbe potuto metterli in pericolo. La costanza, la pazienza e la sopportazione del dolore non erano mai stati il mio forte. Ma, attraverso le mie gravidanze e la nascita dei miei figli, dentro di me è avvenuta una sorta di rivoluzione. Dopo un percorso costellato di tante letture, di ricerca di informazioni e di ascolto dei miei bisogni più profondi, ho capito ciò che volevo: fare la scelta migliore per me e per i miei bambini. Come molte altre mamme, desideravo che il mio corpo e quello dei miei piccoli, ma anche i miei desideri, le mie emozioni e le mie paure, fossero rispettati.
Mentre della felicità del diventare mamma si parla fin troppo spesso, i timori e i dubbi che molte donne provano durante la gravidanza vengono ignorati. Le future madri vengono lasciate sole, e l’ascolto, la vicinanza, il sostegno, sono sostituiti da analisi, ecografie, monitoraggi e ricette mediche. Appena il test di gravidanza rivela che sei incinta, diventi improvvisamente una malata, e tuo figlio un paziente. Ormai a rassicurarci è la tecnologia, la scienza, la professionalità, vera o presunta, del primario di turno, l’amica che ci dice “io ho fatto il cesareo, è solo un taglietto” oppure “ho fatto un parto naturale”, per poi scoprire che di “naturale” in quel parto c’era ben poco (rottura del sacco amniotico, ossitocina, manovra di Kristeller, catetere, episiotomia). Poi però la frustrazione e l’amarezza vissute da una donna che aveva immaginato il suo parto come un’esperienza esaltante e serena, come un evento naturale e pieno di gioia, ma che poi invece si rivela essere una sequenza infinita di interventi chimici e chirurgici, tra urla, rumori, ansia, tensione e mancanza di rispetto, scompaiono regolarmente nel momento in cui gli operatori dicono “signora, è contenta? Ecco suo figlio, guardi quanto è bello!”
Ma, mi chiedo, perché ci accontentiamo di così poco?
“Quando sono rimasta incinta, avevo un grande desiderio, non avere rimpianti”, racconta Elena. “Non volevo essere una di quelle donne che poi dicono ‘ah, se lo avessi saputo…’. Ero anche disposta a un cesareo, ma se fosse stato necessario. Ma non volevo l’epidurale. Devo ringraziare mia madre che mi ha sempre trasmesso un’idea molto serena del dolore, che è qualcosa che si sopporta e che poi passa. Ho sempre pensato che se il dolore c’è, a qualche cosa serve. L’idea di fare tutti questi impicci e imbrogli, ‘epidurale sì-epidurale no’, mi hanno sempre convinto poco. Cercavo di capire tante cose, anche parlando con la mia ginecologa. E il fatto che mia sorella avesse partorito in casa mi incuriosiva molto. L’ospedale non mi faceva sentire sicura. Il fatto di non sapere chi avrei trovato mi faceva provare una sensazione di paura. Così cominciai un percorso. Andai dalla ginecologa che mi seguiva da 10 anni e le chiesi ‘perché devo fare analisi epatite B ora e fra sei mesi?’ La risposta fu ‘è la prassi’. Poi chiesi informazioni su un’altra analisi e mi rispose seccata. Parlai del parto in casa e lei commentò ‘è molto romantico, ma se viene un’atonia all’utero perdi la donna!’. Pensai ‘non tutte le donne che partoriscono in casa pensano tranquillamente di poter morire’.
Avevo programmato un viaggio alle Seychelles e chiesi un certificato di gravidanza in inglese perché così, qualsiasi cosa fosse successa, sarei stata tranquilla. La dottoressa era molto scocciata e la cosa mi infastidì molto. Sull’autobus, tornando a casa, mi montò dentro una tale rabbia… Telefonai al consultorio chiedendo se potevo essere seguita da un altro medico. Ma il mio non era un approccio così ‘fuori dai binari’. Successivamente, ho scoperto che spesso alle donne si dice ‘si fa così e così’, la donna sta zitta e fa tutto. A me non stava bene. Sentivo che in quel momento non ero malata, vivevo le analisi con tranquillità, come si fa il pap-test una volta l’anno. Insomma, alla fine partorire a casa era diventata una necessità. Volevo partorire in un luogo familiare, dove mi sentivo a mio agio, con delle persone che conoscevo. Poi ho scoperto di non essere una svalvolata, perché mi sono informata su Internet e ho visto che all’estero l’approccio è diverso. Con mio marito ci eravamo organizzati in caso fossi stata trasferita in ospedale. Volevo sapere dove sarei andata, conoscere il contesto. Si fa tanta leva sul ‘e poi se succede qualcosa?’, come se le donne che partoriscono a casa non ci pensassero. Una brava ostetrica sa riconoscere un problema, l’urgenza vera e propria non c’è. Nel momento in cui c’è un problema, o partorire in casa non è possibile, si va per tempo in ospedale”.
L’approccio di Oliva è stato completamente diverso: “Non mi sono preparata, non ho letto libri, non volevo sentire le storie di altre donne, ed è stato meglio, perché poi ho scoperto tutto alla fine. Partorire in casa era una cosa che vagamente avrebbe potuto piacermi, ma di cui non sapevo assolutamente niente. Parlando con il mio compagno avevamo pensato di fare il primo figlio in ospedale, per allenarci, e il secondo in casa. Poi è venuto a trovarci un amico che con la sua compagna aveva avuto due bimbi in casa. Lì è scattato qualcosa, ci siamo detti ‘allora si può fare’. E così è stato. Abbiamo contattato un’ostetrica specializzata, che mi ha dato assoluta fiducia nella sua professionalità. E senza aver fatto nulla, neanche il corso pre-parto, un mese prima di partorire abbiamo deciso di farlo. Ci siamo incontrati qualche volta con l’ostetrica per conoscerci. Avevamo fiducia in lei perché si occupava di questo da tantissimo tempo. Fino a quando hai dei dubbi, ti chiedi se sarà sicuro, se succede qualcosa. Poi, facendolo, scopri che lo potresti fare anche in mezzo a un bosco, senza l’ostetrica. Ma prima c’è questa ansia, perché te la infondono, tutti ti dicono che sei folle e ti viene un’ansia che non vorresti avere. Anche le persone più sciolte, super-naturali, i ‘guru della New Age’, di fronte a questa scelta si bloccano. Perché non sanno che dietro c’è tutta un’organizzazione e che quindi è una scelta che si può gestire nel migliore dei modi. Quando l’ho detto a mia madre, lei ha molto apprezzato. Molte sue amiche hanno partorito in casa, per cui anche se non me lo ha consigliato, non le è sembrata una scelta particolarmente strana”.