CAPITOLO I

Il tratto dell'ipersensibilità

1.1 Gli studi di Elaine Aron

La prima volta che mi sono avvicinata all’idea di scrivere questo testo avevo pensato a uno stile molto tecnico e scientifico, quasi accademico. Quando poi sono stata invitata a diminuire i tecnicismi e scrivere in modo più caloroso e personale, una parte bambina di me ha gioito. Quella parte che scriveva poesie alle elementari e temi “molto maturi per la sua età” alle scuole medie, la parte spontanea e vitale che anni di università mi avevano fatto mettere da parte. Ciò che ci insegnano è che le cose importanti e vere sono quelle che si possono spiegare, spesso misurare, quelle su cui si possono fare teorie ed esperimenti. E io ho profondamente apprezzato e tuttora apprezzo questo aspetto scientifico dello studio che mi è stato sapientemente insegnato. Ma non può essere l’unico approccio possibile. Occuparmi dell’ipersensibilità, anche mediante questo testo, è stato per me l’occasione di trovare un ponte tra ambito personale e professionale, tra scienza ed esperienza.


Del resto la sua stessa scoperta è avvenuta attraverso questo ponte: negli anni ’90 Elaine Aron, psicoterapeuta e ricercatrice in California, inizia a studiare una variabile mai considerata prima dai ricercatori, ma che nella sua esperienza personale aveva giocato un ruolo cruciale. Nel suo libro racconta come da bambina si “nascondeva” dal caos familiare ed evitava qualsiasi forma di attività, specialmente se competitiva, e gli altri bambini in generale. Aveva paura di molte cose, ad esempio di immergere la testa sott’acqua, e piangeva molto spesso, pensando a preoccupazioni molto più grandi di lei e insolite per la sua tenera età, come la crudeltà nel mondo, le guerre, le ingiustizie. E il suo corpo sembrava risuonare con le sue reazioni emotive. Una volta cresciuta, durante una seduta di psicoterapia mentre cercava di spiegare il suo modo così profondo di sentire tutto ciò che la circondava, la sua terapeuta le suggerì semplicemente “Sei una persona altamente sensibile”, riferendosi alla differenza nella tolleranza agli stimoli intensi, sia di tipo emotivo che sociale, e ad una modalità particolarmente profonda di fare esperienza, in senso positivo e negativo. Ha passato anni in terapia a rivalutare l’impatto di tale caratteristica sulla sua infanzia: la sensazione di sentirsi spesso sovrastata, l’alternanza di sentirsi nel mondo e fuori da esso e il bisogno di essere protetta e valorizzata nelle sue capacità di immaginazione, empatia, creatività, introspezione, che lei stessa di rado apprezzava, e che oggi riconosce come “il dono speciale” della sua sensibilità.


In questo lungo percorso di ricerca interiore, e nel contempo scientifica, a partire soprattutto da studi caratteristiche quali introversione, timidezza ed emotività, con le quali si era sempre sentita identificata, la Aron ipotizza e poi dimostra l’esistenza di un’ulteriore variabile, che sembra correlare con queste caratteristiche ma che non vi coincide: la High Sensitivity, tradotta come alta/elevata sensibilità, o ipersensibilità.


Le persone altamente sensibili sono quel 20% della popolazione generale che vive “diversamente” ciò che accade e che le circonda, in modo più profondo, emotivo, empatico. E la maggior parte di queste (soprattutto qui in Italia) non è ancora consapevole di possedere questo tratto. Molti di voi, genitori, educatori o insegnanti che state leggendo ora, probabilmente avete incontrato quella persona o quel bambino su cinque, o forse lo siete voi stessi.


Il bambino altamente sensibile è sovente quello che è più suscettibile, emotivo, riflessivo, che può venire più spesso frainteso ed emarginato fino a diventare talvolta vittima di bullismo. Può essere quello che non ride quando si prende in giro un altro, che si preoccupa del vissuto del compagno disabile o in difficoltà, e che magari soffre in silenzio per le ingiustizie. Ma è anche quel bambino che riesce a catalizzare una grande energia intorno a sé, gioire profondamente per cose in apparenza semplici, e che sa mostrare una profondità di visione e comprensione, e un’empatia tali da lasciarvi spesso interdetti e meravigliati.


L’idea alla base è che all’interno di ogni specie (non solo quella umana) esista più di una strategia di sopravvivenza, e che le differenze costituiscano un prodotto finale della selezione naturale. Il tratto dell’elevata sensibilità potrebbe costituire la base di tale differenza nella strategia di sopravvivenza all’interno del gruppo sociale. Essendo infatti maggiormente reattivi all’ambiente, i membri ipersensibili hanno una maggiore consapevolezza di sé e di ciò che li circonda, in termini di risorse e pericoli, e si rivelano più attenti e pronti in situazioni di emergenza. Il costo di tale strategia è che richiede un notevole sforzo cognitivo e un dispendio di energie fisiologiche. Il funzionamento cognitivo, neurologico e fisiologico di questa strategia è specifico e differente, e costituisce il fondamento scientifico che ne supporta l’esistenza.


Vi suggerisco di considerarlo un tratto neutro: diviene vantaggio o svantaggio solo quando si presenta una particolare situazione o un’altra. Da che il tratto esiste in ogni specie evoluta di animale, deve avere un valore in molte circostanze: è funzionale avere qualcuno vicino che guarda ai segnali sottili, che si preoccupa dei pericoli, dei nuovi cibi, dei bisogni dei più giovani e malati e delle abitudini degli altri animali. Ma naturalmente è necessario avere anche buona parte di non ipersensibili, che non si allarmi per ogni segnale e ogni azione. Che corra fuori a esplorare, lottare per il gruppo. Ogni società ha bisogno di entrambi.
E. Aron

Con l’espressione processamento sensoriale ci riferiamo a una differenza costituzionale che non è relativa agli organi di senso, ma a qualcosa che interviene dal momento in cui l’informazione sensoriale viene trasmessa al cervello e viene elaborata. Questo determina generalmente un aumento di vigilanza, perspicacia e riflessività.


Satow, già nel 1987 analizzando un questionario, aveva individuato i seguenti fattori:

  • Soglia sensoriale più bassa,
  • Percezione più rapida di uno stimolo,
  • Tolleranza inferiore a stimoli intensi e prolungati.

Per i bambini particolarmente sensibili, una nuova esperienza può risultare spaventosa, richiede sempre loro una forma di controllo e necessita di un’adeguata accoglienza e rassicurazione da parte dell’adulto, per dar loro modo e tempo di elaborare tutti i nuovi dettagli e catalogarli come non pericolosi.


Mi torna in mente l’esempio di un ragazzino i cui genitori sembravano molto stupiti del fatto che volesse sempre leggere il medesimo libro prima di addormentarsi: “Ma è già grande, ci sembra strano che non sia curioso di qualcosa di nuovo, che abbia ancora bisogno di ripetere ciò che già conosce”. In realtà per lui leggere sempre quel libro prima di dormire costituiva una rassicurazione, come “non preoccuparti, anche domattina ti sveglierai, avrai una mamma e un papà e andrà tutto bene”. Nella sua storia aveva vissuto un importante abbandono, e la sicurezza che mamma e papà gli rimanessero accanto giorno per giorno non era affatto scontata. Nella sua particolare sensibilità aveva trovato un modo per auto-rassicurarsi, nonostante la difficoltà di adattamento e la capacità assai precoce di riflettere sugli eventi e prefigurarsi tutte le possibili cause di ulteriore sofferenza.


Un altro aspetto collegato è infatti la particolare attenzione circa le possibili conseguenze di ciò che accade e dei successivi comportamenti, una tendenza a prevedere ogni possibile andamento e a voler evitare rischi. Questi bambini dimostrano in modo particolare di preferire la prevedibilità attraverso la raccolta di informazioni piuttosto che l’esplorazione immediata o l’azione impulsiva.


Un altro autore, Gilmartin, rileva poi una sensibilità particolarmente ampia, già nei bambini molto piccoli, alle stimolazioni come temperature estreme, rumore, dolore, vestiti ruvidi, sole, diminuzioni stagionali della luminosità ambientale, e fastidi di minore intensità come la presenza di un granello di sabbia nelle scarpe. In questo senso la timidezza, che nel 70% dei casi spesso viene confusa con la sensibilità, può in realtà essere una reazione di questi bambini a stimolazioni nuove e complesse, come ad esempio quelle sociali.


Nel mio caso personale questa confusione in realtà non è stata un problema, poiché io faccio parte del 30% di ipersensibili estroversi, e da bambina ero molto socievole, anzi definita spesso “leader” o “mediatrice” per come mi comportavo con i miei compagni di scuola e amichetti. Tutt’altro che timorosa dell’altro, ho sempre investito enormemente sulla componente sociale della mia esistenza, fino poi ad arrivare ad annullare me stessa pur di sentirmi parte di un gruppo.


Un episodio molto significativo della mia storia mi rammenta spesso questa difficile sensazione, e gestione, della “diversità”: in un litigio con un’amica durante una vacanza venni accusata di pretendere che le mie esigenze e opinioni venissero considerate, pur essendo in contrasto con quelle di tutte le altre del gruppo: “Se solo tu pensi o dici o hai bisogno di una certa cosa, e tutte le altre no, ti devi adattare perché è la democrazia”. Io, interdetta e ferita, sentendomi in colpa perché in effetti avevo tanto sopportato da esplodere inaspettatamente in modo controproducente (passando quindi dalla parte del torto), rimasi commossa e colpita dalla risposta di una terza persona esterna che rispose “Secondo me con la democrazia si possono gestire i governi, non le amicizie, perché in amicizia ogni bisogno o opinione è importante, anche se diversa.” Fu una grande lezione per me, e l’inizio di un percorso di consapevolezza del mio diritto ad essere diversa, come ero. E invece per anni ho lasciato che altri decidessero per me, mi sono lasciata mettere da parte in tutta consapevolezza, pensando di fare il bene del gruppo, e di venire meglio accettata. Ma poi arrivavo a un punto in cui questa scissione da me diventava ingestibile, e finivo per esplodere tra rabbia, delusione e confusione, rovinando tutto il faticoso lavoro di adattamento che avevo disperatamente tentato con tutte le mie forze.


Voler essere come gli altri, o come gli altri mi vogliono, o come si aspettano che io sia, è la prima trappola dell’ipersensibile. I bambini ipersensibili sono spesso perfezionisti, facilmente delusi e irritati dai propri errori e timorosi del giudizio. Anche se nessuno lo ha esplicitato sentono facilmente il compito di essere “bravi e buoni”, “i più bravi e i più buoni”. E la base di questa diversità e spontaneità nel voler essere come ci vogliono, quando si incrocia con un ambiente familiare che purtroppo non è in grado di accoglierla né di comprenderla, aumenta la sofferenza di questa assurda missione: essere diversi da come si è, per essere come altri hanno bisogno che siamo.


“Il ricordo di una camera in penombra, una scatola piena di giocattoli sfilata di sotto il letto.
Ordine, silenzio.
Brava, una bambina brava.
Una bambina che si assume le responsabilità di chi le sta intorno, senza gli strumenti adatti.
Sa che la sua vitalità è un peso, che non può essere accolta, che le sue richieste non sono capite.
Una bambina che disorienta.
Una bambina diversa.
Diversità, un tema che si ripropone.
Accogliente seppur non accolta, leggera anche se questo è per lei è un peso, facile perché sa prevedere quello che ci si aspetta da lei e lo dà.
Una personalità che piano piano si nasconde, si nasconde nell’intimo, in quello sgabuzzino dell’anima dove si mettono le cose che non si vogliono, che sono d’impaccio.
Piano piano la porta dello sgabuzzino si chiude, poi si sigilla.
I bisogni si trasformano, si plasmano a seguire i bisogni dell’altro, i desideri dell’altro, e i propri non si conoscono più, non si riconoscono più.
Affetto. Quell’affetto che tanto si desidera, quell’accoglienza che tanto si desidera, si prendono dalle briciole, le briciole che vengono donate e le briciole diventano l’unica pienezza che si conosca.
Energia, tanta energia utilizzata ogni giorno perché questo equilibrio si mantenga.
Ripetizione. Questo schema si ripete immutato nel tempo.
Diversità, non accoglienza, non riconoscimento. Negazione. Negazione del sé vero.
La strada è solo quella dell’essere bravi.
Bravi a scuola, ordinati, educati, silenziosi, sorridenti, puliti.
Solitudine, voce fuori dal coro.
Veder il mondo intorno a sé e per qualche motivo non riuscire a parteciparvi, percepire così profondamente e negare. Negare ogni volta che la percezione sia giusta, perché quella percezione in qualche modo ti emargina ed allora il solo modo
è di chiudere anch’essa dentro quello sgabuzzino nero che è nato nell’anima tanto tempo prima, e sorridere, sorridere per essere accettati.
Cercare, cercare quotidianamente, strenuamente, faticosamente.
Domande che si susseguono.
Le risposte sono: “non ti accontenti”, “cosa ti manca”, “sei pessimista”, “sei sempre arrabbiata”…
allora moltiplichi i tuoi sforzi e sorridi.
Tanto tempo e tanto dolore prima di riconoscersi in qualcun altro che ha vissuto come te, che si è negato come te, simile fra simili. I tuoi discorsi sono i suoi, le sue domande sono le tue.
Avere “diritti”, ancora si stringe il cuore quando si pronuncia questa parola e finalmente si ritrova la chiave dello sgabuzzino dell’anima, che comincia ad aprirsi di nuovo.”
Roberta


Una maggiore sensibilità alle sensazioni più sottili è ciò cui consegue una maggiore riflessività, sia come causa che come risultato di una prevalenza di ciò che viene percepito nell’ambiente esterno piuttosto che di ciò che accade all’interno.


Un talento per la riflessione circa ciò che potrà capitare in futuro, in termini di conseguenze, e ciò che poteva andare diversamente in passato.


“In sintesi, ci sono prove ragionevoli di una più ampia sensibilità del processamento sensoriale in un’ampia minoranza di individui. Ci si potrebbe aspettare che si manifesti come scarsa socievolezza ed emotività altamente negativa in alcuni individui sensibili – la prima come strategia per evitare la sovrastimolazione, l’ultima come risultato di interazione del tratto con le prime esperienze avverse o socialmente non supportate. Ad ogni modo, può essere lo stesso distinto da loro e correlato ad altre variabili e misure coinvolgendo logicamente la sensibilità.”
Aron e Aron, 1997

I coniugi Aron, negli anni ’90, avviarono una serie composta da 7 studi, su circa un migliaio di persone, riguardo le caratteristiche dell’ipersensibilità, sulla base dei quali hanno costruito una scala di autovalutazione a 27 livelli denominata Highly Sensitive Person (HSP) Scale.


I risultati chiave emersi in questi studi rilevano come le varie caratteristiche comuni riferite riguardano l’ipersensibilità verso svariati elementi quali: percezioni sottili dell’ambiente, le arti, la caffeina, la fame, la sofferenza, il cambiamento, l’iperstimolazione, i forti stimoli sensoriali, gli umori degli altri, la violenza percepita tramite i media, e il sentirsi osservati.


Essendo la sensibilità correlata, ma non identica, alla timidezza/introversione, viene dimostrato che molti introversi non sono molto sensibili, e allo stesso modo, molti individui altamente sensibili non sono introversi. Egualmente la sensibilità è stata spesso confusa con nevrosi, timore, reattività o inibizione, ma l’ipersensibile diventa impaurito, sovreccitato, o più facilmente depresso a seguito di esperienze negative ripetute, e se nel contempo non trova risorse di tipo sociale che lo aiutino ad elaborare l’esperienza. Sembra abbastanza ragionevole quindi che anche i bambini ipersensibili possano essere più emotivi, così come possono essere consapevoli di un numero maggiore di informazioni e possono essere più facilmente sovreccitati o ritirarsi improvvisamente.


All’interno di queste centinaia di persone identificate da questo studio come altamente sensibili sono emersi due gruppi distinti: un gruppo più piccolo (circa un terzo dei partecipanti) che ha riportato di aver avuto un’infanzia infelice e che tende ad avere punteggi più elevati sull’introversione sociale e l’emotività negativa; e un gruppo più ampio (gli altri due terzi dei partecipanti) che invece ha dichiarato di aver avuto un’infanzia felice e non mostra nessuna differenza di adattamento rispetto alla più ampia popolazione di individui non altamente sensibili.


Posto quindi che tutti i bambini altamente sensibili hanno lo stesso temperamento sottostante, le implicazioni per il resto della loro vita dipendono dai fattori ambientali, e quindi familiari ed educativi. Rolf Sellin sottolinea come sia delicata la questione delle richieste “particolari” cui la famiglia deve provvedere per aiutare il bambino ipersensibile a sviluppare quell’attaccamento sicuro che gli servirà tutta la vita per vivere bene con questa caratteristica. Come dicevamo poco fa, il bambino ipersensibile tende a vivere con maggiore profondità le situazioni, piacevoli o spiacevoli che siano, e ne è quindi particolarmente influenzato. Il comportamento necessario del genitore implica pertanto un aumentato sforzo di comprensione e rassicurazione verso il figlio, e la migliore gestione possibile delle proprie emozioni, per non influenzare le sue.


L’irritabilità infantile è il primo segnale comune di un temperamento sensibile, e conduce più facilmente a forme di attaccamento insicuro se il genitore non compie sforzi eccezionali per rendere il bambino sicuro. Ad ogni modo il valore di tali risultati è che può aiutare a indebolire gli stereotipi delle persone altamente sensibili come particolarmente negative o nevrotiche, perché suggerisce che tale caratterizzazione si applica invece solo ad una minoranza. Al contrario gli individui sensibili provenienti da contesti familiari che sostengono la loro personalità riescono a trasformare la loro specificità in un grande vantaggio per la loro vita.


Mi torna in mente l’esempio di una ipersensibile il cui mandato familiare implicito era sempre stato “tieni duro, stringi i denti e vai avanti”, ereditato dal padre, a sua volta ipersensibile. L’impatto di questo insegnamento sulla sua vita si è realizzato in un costante superamento dei propri limiti e in una riduzione della propria espressività generale. Nel corpo tutto questo si era accumulato sotto forma di tensioni croniche, che l’hanno portata a una sorta di “congelamento interno”. Il suo percorso è stato trasformare questa implicita richiesta – di non mollare mai e di forzare regolarmente i propri limiti corporei – nell’ascolto di se stessa, del suo corpo e del suo bisogno di fermarsi, respirare e rilassarsi. Dopo un lavoro, fatto insieme, di riflessione su tali impliciti e sulla sua costante somatizzazione del superamento dei propri limiti, la frase alternativa per lei è diventata quindi “No. Basta. Ho bisogno di rilassarmi e di respirare”.


Rolf Sellin parla della possibilità che un genitore ipersensibile, non consapevole della propria caratteristica e che non ha accettato le implicazioni derivanti, possa poi involontariamente combatterle nel figlio. Per questo motivo ritengo fondamentale per un genitore acquisire tale conoscenza e consapevolezza prima di tutto rispetto alla propria parte altamente sensibile.


L’influenza dell’ambiente genitoriale sul vissuto infantile sembra essere più forte tra gli individui altamente sensibili soprattutto per la parte maschile. Coloro che sono più sensibili al proprio ambiente saranno ovviamente più reattivi alle relazioni genitoriali negative, e l’impatto più forte negli uomini assume un senso se consideriamo il contesto culturale relativo a un’educazione del maschile che sembra ridurre ulteriormente la loro sensibilità.


Molte volte gli uomini non immaginano di poter essere ipersensibili. Molti di loro hanno sepolto bene in profondità questi tratti che li distinguevano, e si trovano intrappolati in un dilemma tra “virilità” e sensibilità, e sono ancora più in balìa di aspettative contraddittorie.


Questo appare ancora più verosimile nel rapporto tra padri e figli maschi: la dottoressa Aron afferma che in molti casi i padri tendono ad avere sentimenti confusi intensi e contrastanti rispetto alla propria sensibilità e quindi anche rispetto a quella dei propri figli.


I bambini con elevata sensibilità, se non adeguatamente compresi nell’ambiente familiare e rispettati riguardo questo tratto, con probabilità avranno da adulti maggiore bisogno di sostegno. Nel contempo risponderanno molto bene alla psicoterapia, perché vi troveranno ciò di cui hanno bisogno e che magari non hanno ricevuto in famiglia: una guida nell’apprezzare le loro peculiarità e nello sviluppo di strategie per gestirla al meglio.


Uno degli aspetti che più ho apprezzato avvicinandomi a questo concetto è stato il fatto che venisse studiato in modo multidisciplinare e gli anni di ricerche e di studio fino ad oggi hanno coinvolto anche biologi, genetisti, neurologi, psicologi dello sviluppo, contribuendo a darne un quadro sempre più specifico e multifattoriale.