CAPITOLO I

Mamme e lavoro

La nostra storia

Diventare mamma è sempre stato il mio più grande desiderio. Fin da bambina, ho desiderato una famiglia numerosa e una vita il più possibile vicina alla natura.


Dopo aver concluso gli studi e viaggiato per l’Europa imparando diverse lingue, il mio sogno stava finalmente per realizzarsi. Aspettavo un bambino. Avevo un buon lavoro nel Principato di Monaco al quale intendevo tornare due mesi dopo il parto, come previsto dalla legge monegasca. Sembrava così semplice: lo facevano tutte.


Io però non ce l’ho fatta. Dopo un parto difficile e pieno di complicazioni, il bambino dormiva pochissimo e piangeva quasi ininterrottamente, calmandosi solo tra le mie braccia o attaccato al seno. Avevo provato a seguire i consigli degli “esperti” e impostare orari regolari per le poppate. Ma c’era senz’altro qualcosa che mi sfuggiva, perché il mio piccolo continuava a reclamare nei momenti più impensati. Non prendeva ciuccio né si accontentava di un oggetto transizionale. Per lui c’erano solo le braccia e il latte della mamma.


Il grande giorno si avvicinava e io non riuscivo ad immaginare di affidare quel piccolino alle cure di qualcun altro. Lui aveva bisogno di continue attenzioni e un’educatrice di nido con tanti bambini a cui badare non avrebbe certo potuto tenerlo in braccio tutto il giorno. C’è stato anche chi ha ipotizzato che fosse proprio quello il problema: troppe attenzioni = bambino viziato e iper-esigente.


Questo genere di osservazione, quando è rivolto a una neomamma fragile e stanca, può avere effetti devastanti. Io ho iniziato infatti a sentirmi inadeguata. Incapace di comprendere, di calmare, di “gestire” il mio bambino. La mia reazione è stata però opposta a quella suggerita: se con mio figlio non ci sapevo fare, la soluzione non era senz’altro lasciare che fossero altri a farlo al mio posto. Per me era ancora più evidente il fatto di dover restare con lui per poterlo comprendere, consolare, confortare.


La legge monegasca all’epoca non prevedeva congedi parentali oltre i due mesi canonici. Ho così provato a chiedere qualche mese di aspettativa. In seguito alla risposta negativa, non ho potuto fare altro che dare le dimissioni. A casa con il piccolo, le giornate sembravano non finire mai. Lui voleva stare sempre in braccio. E per quanto io stessa amassi averlo tra le mie braccia, in alcuni momenti era difficile e faticoso fare tutto con una mano sola.


Della meravigliosa carrozzina da corsa a tre ruote, che gli avevamo comprato prevedendo scorrazzate sulla promenade, non voleva nemmeno sentir parlare. Addio passeggiate in riva al mare: le nostre giornate si limitavano a gironzolare per casa con il bebè appoggiato sull’avambraccio.


Nella continua ricerca di una soluzione che potesse facilitare la vita a entrambi, ho acquistato il mio primo marsupio. Indicato dai cinque mesi in su. Leonardo ne aveva solo tre, ma ho voluto provare. Solo provare. È stato come premere su un magico pulsante che ha istantaneamente calmato il mio bambino. L’idea di dover aspettare ancora due mesi prima di poter utilizzare quel magico supporto non mi allettava affatto. Ho quindi iniziato subito a portare Leonardo, sorreggendogli la testa con una mano. L’ho portato finché non è stato in grado di camminare, e anche dopo.


Erano in molti a mettermi in guardia sulla dannosità di questa pratica: un bambino sempre attaccato alla mamma sarebbe diventato un mammone, viziato e capriccioso. Ero certa che queste persone, tutte più esperte di me, avessero ragione. Mi sentivo terribilmente in colpa ma, purtroppo, non ero riuscita a trovare un altro modo per calmare il mio bambino.


Diciannove mesi dopo Leonardo, è arrivata Gloria. Un giorno, durante la gravidanza, mi sono imbattuta in un uomo che portava un neonato di pochi giorni, avvolto in una fascia stretta stretta (al mio occhio inesperto sembrava addirittura troppo stretta).


Il bambino sembrava essere assolutamente sereno e soddisfatto e così anche il papà. Non ho potuto trattenermi dal fermarlo per domandargli dove avesse preso la sua fascia. Lui mi disse di essere tedesco, e di aver acquistato la sua fascia in Germania. Mi consigliò di cercare informazioni in rete. A volte penso che vorrei poter ringraziare quella persona che, senza saperlo, ha dato una vera e propria svolta alla mia vita.


Tornata a casa, ho iniziato la mia ricerca. Ho scoperto non solo la fascia ma anche l’universo del portare. Mi sono resa conto che esisteva anche un’altra scuola di pensiero rispetto a quella del “bambino portato = bambino viziato”. C’era chi pensava che portare fosse giusto, bello, naturale e benefico, tanto per la mamma che per il bambino.


Leggendo le argomentazioni pro-fascia mi sono chiesta come avessi potuto dubitare anche solo un secondo. Mi sono resa conto che il posto di ogni bambino è tra le braccia della sua mamma (o del suo papà). Semplice buon senso, certo. Ma non è sempre facile ragionare in modo sensato quando si è stanchi, frustrati e quando la soluzione ci viene presentata, già bella e confezionata, da persone che riteniamo più competenti di noi.


Del resto Leonardo stava smentendo le terribili previsioni. Era infatti un bambino molto vivace ma tutt’altro che viziato. Allegro e socievole, era curioso e assolutamente aperto al mondo.


Dopo essermi informata in modo approfondito e avendo compreso i limiti del marsupio classico, ho acquistato una fascia lunga nella quale ho portato Gloria fin dai primissimi giorni, senza senso di colpa e senza dare ascolto ai “presunti” esperti, secondo i quali la bambina avrebbe avuto troppo caldo, troppo freddo, avrebbe rischiato di soffocare, così stretta, e (ovviamente) sarebbe diventata mammona e viziata.


Eravamo entrambe felici della nostra fascia, e così pure Leonardo, che aveva una mamma serena e disponibile, con entrambe le mani libere. La fascia aveva per me un solo difetto: l’aspetto un po’ troppo “etnico” che stonava con il mio stile personale. Durante la mia terza gravidanza ho quindi pensato di crearne una io stessa, con un tessuto scelto da me. Cercando informazioni in rete ho scoperto il mei tai, e anche un tutorial per realizzarlo da sé. Ho deciso di provare.


Il mei tai è stato una grande scoperta per me: comodo e “fisiologicamente corretto” come la fascia, pratico e maneggevole come il marsupio. Una vera rivelazione. Ho portato Chiara nel mei tai fin dal primo momento e ho continuato fino ai diciotto mesi circa.


Nel frattempo avevo traslocato due volte e aperto il blog “La Casa nella Prateria” per restare in contatto con amici e parenti, tenendoli aggiornati con fotografie dei bambini e racconti della nostra quotidianità. Con mia grande sorpresa, il blog iniziava a ricevere visite anche da persone estranee alla mia cerchia familiare, e quando ho parlato del mio mei tai fatto in casa ho iniziato a ricevere richieste di persone che desideravano acquistarne uno.


Ho contattato l’autrice del tutorial e le ho chiesto il permesso di poterlo tradurre in italiano, condividendo il suo cartamodello. Grazie a questo semplice gesto di condivisione, molte mamme come me hanno scoperto questo meraviglioso supporto e hanno iniziato a portare.


Ma non tutti hanno il tempo, la voglia o la capacità di cucire da sé un mei tai. Di fronte alle continue richieste decisi quindi di realizzarne alcuni destinati alla vendita. Senza nemmeno rendermene conto, dopo sei anni trascorsi a fare la mamma a tempo pieno, stavo ricominciando a lavorare.


Un lavoro nuovo, completamente diverso da quelli che avevo svolto fino a quel momento, che mi avrebbe dato grandissime soddisfazioni. Ho deciso quindi di mettermi in regola e di aprire una partita IVA. Insieme all’attività commerciale, anche il blog cresceva piano piano, e ho iniziato a ricevere proposte di collaborazione in qualità di web editor. Quasi senza accorgermene, ho messo su una piccola impresa che contribuiva, nel suo piccolo, al bilancio familiare.


Qualche mese dopo, per via della crisi, il datore di lavoro di mio marito ha dato un taglio al personale. In quanto ultimo arrivato, è stato lui il primo ad essere “tagliato”.


La situazione rischiava di diventare difficile. Il suo stipendio era infatti essenziale per coprire le nostre spese. Dopo qualche settimana di curriculum, colloqui e code all’ufficio di collocamento, ci siamo detti che forse era il caso di guardare il lato positivo di quella condizione apparentemente critica. E se fosse stato lui, per un po’, a restare a casa, mentre io mi concentravo sulla mia piccola impresa in modo da farla crescere?


Non è facile convincere un uomo a fare “il casalingo”, ma il gioco valeva la candela. Abbiamo deciso quindi di concederci qualche mese perché io potessi concentrarmi sulla mia attività. In questo libro desidero condividere la nostra esperienza perché possa essere d’aiuto e d’ispirazione a chi volesse tentare un passo del genere. Non sono un’esperta in creazione d’impresa e lo scopo di questo libro non è indicarvi la strada sicura verso il successo. Sono semplicemente una mamma che è riuscita a conciliare la cura della famiglia con le necessità economiche che questa comporta e spero che, attraverso la nostra esperienza e la condivisione di ciò che ho imparato finora, altre mamme troveranno il coraggio, l’idea, l’opportunità che stanno cercando.