Allegato 3

Resistenze alle quali devono essere pronti
i sostenitori del divieto alla sculacciata

Per non soccombere allo scoraggiamento, il sostenitore del divieto alla violenza educativa ha interesse a conoscere le molteplici resistenze contro cui andrà a scontrarsi inevitabilmente, nella sua lotta contro la convinzione generale che le botte siano indispensabili a una buona educazione. La credenza, ovunque diffusa, del valore educativo della sculacciata e della violenza educativa in generale è stata acquisita infatti fin dalla più tenera età, probabilmente nel momento stesso delle prime sculacciate ricevute. Il bimbo, picchiato dalla persona che ama di più al mondo, da cui è totalmente dipendente e che rappresenta l’autorità più alta ai suoi occhi, acquisisce la convinzione che ciò che ha subìto è perfettamente normale e meritato, e costituisce un eccellente e incontestabile metodo educativo. Radicata così in profondità nella vita di ciascuno di noi, intrecciata alle radici stesse della nostra personalità, tale credenza è molto difficile da estirpare, perché fa parte di noi e ci è praticamente impossibile prenderne le distanze. Essa è inoltre rinforzata dalla pratica universale e dal consenso generale. Non dobbiamo quindi prendercela con coloro che la manifestano. Colui che intraprende la strada di combattere questa convinzione e questa pratica deve sapere che si scontrerà con un’impressionate serie di metodi di difesa, a volte combinate con accuse di condiscendenza.


  • Le giustificazioni religiose

Due ostacoli molto antichi non si incontrano quasi più da noi, ma si esprimono ancora in alcune comunità religiose:


La convinzione che la violenza educativa sia raccomandata da Dio. Si incontra ancora presso certi ebrei, alcuni musulmani e alcuni cristiani fondamentalisti. Trova fondamento su un certo numero di proverbi tratti dalla Bibbia e attribuiti al re Salomone o all’Ecclesiaste. La violenza educativa è considerata come la “punizione biblica”. Non è il caso di discuterne perché è voluta da Dio.


La convinzione che Dio stesso corregge gli uomini come i padri terrestri correggono i figli. Questa convinzione offre un ottimo esempio di circolo vizioso. Poiché se consideriamo le sofferenze degli uomini come il risultato della volontà di Dio di correggere i suoi figli, è soprattutto perché attribuiamo a Dio, concepito come un padre, la pratica delle correzioni simili a quelle che i padri umani applicano ai loro figli. Le “punizioni divine” in questo modo servono come giustificazione delle punizioni umane, quando invece sono proprio queste ultime ad aver fatto nascere l’idea delle prime.


  • Le giustificazioni derivanti dall’esperienza personale o per sentito dire

La giustificazione della violenza educativa per esperienza. “I calci in culo che mi ha dato mio padre mi hanno fatto molto bene.” Questa giustificazione significa: “Dal momento che sono diventato quello che sono grazie alla violenza dei miei genitori, ciò significa che questa violenza era buona.” È una buona cosa che ciascuno abbia il sentimento del proprio valore, ma è dannoso attribuire l’origine di tale valore a ciò che ci ha sminuito anziché a ciò che ci ha reso migliori. I “si dice” ripetuti instancabilmente: “Una buona sculacciata non ha mai fatto male a nessuno” o “non ha mai ucciso nessuno”.


  • L’ignoranza più o meno volontaria

L’amnesia selettiva. Il semplice ricordo delle correzioni ricevute è talmente spiacevole e umiliante che si preferisce non ricordarsene e si arriva a dimenticarsene del tutto. Di solito non ci si ricorda delle botte ricevute prima dei tre anni.


L’assenza di interesse degli esploratori e degli etnologi. Questa forma di cecità particolare si manifesta innanzi tutto nel fatto che è trascorso un lunghissimo periodo prima che gli etnologi, per la maggior parte maschi, si interessassero al modo in cui i bambini venivano allevati. Margaret Mead stessa dice di essersi interessata alle pratiche educative delle tribù della Nuova Guinea perché anche suo marito, anch’egli etnologo, non accettava di fare questo studio.


La cecità compiacente degli storici e degli etnologi benevoli. Quando studiano una società del presente o del passato per la quale nutrono delle simpatie, gli etnologi e gli storici sono poco portati a rivelarne gli aspetti negativi, soprattutto se vogliono lottare contro dei pregiudizi sul gruppo umano o sull’epoca che stanno studiando. Risultato: non fanno attenzione al modo in cui sono allevati i bambini e alle loro eventuali sofferenze. E valorizzano solo gli aspetti positivi dell’educazione.


  • La minimizzazione

La derisione. La vergogna provata quando si è stati picchiati prosegue fino all’età adulta e fa sì che la maggior parte delle persone parli con un sorriso imbarazzato di ciò che ha subìto. Si sentono ridicoli di essere stati picchiati. Non possono prendere sul serio la sofferenza subita perché credono ancora di essere stati giustamente picchiati e che, benché vittime, erano più colpevoli di colui che gli faceva violenza. La derisione è il rumore di fondo che rimane dell’umiliazione subita, così come resta, nell’universo attuale, un rumore di fondo fossile del big bang originale.


Il silenzio. Non si parla di ciò che si è subìto. Per quanto ne so io, è stato necessario attendere il XIX secolo, cioè un periodo molto recente, perché uno scrittore osasse raccontare di essere stato picchiato dalla madre e dal padre, e se ne lamentasse. Il primo ad aver osato questa confessione sembra essere stato Jules Vallès. E questo mentre praticamente tutti i bambini venivano picchiati dai genitori a partire dalle prime civiltà. La sofferenza dei bambini sotto le botte dei loro genitori e i danni che ne risultavano sono stati, durante i millenni, un continente sommerso. Le punizioni corporali inflitte dai maestri di scuola sono state messe in questione molto prima da qualche filosofo e, sembra, per la principale ragione che fossero imposte da uomini – i maestri – che spesso erano degli schiavi. Il fatto che le punizioni corporali mettessero i bambini sullo stesso piano degli schiavi e degli animali costituiva senza dubbio un problema per i genitori delle famiglie aristocratiche. Un’altra ragione di questa anteriorità della messa in questione della violenza educativa scolastica può essere stato il fatto che alcuni bambini, eccezionalmente trattati con dolcezza da parte dei genitori, abbiano potuto restare scioccati da ciò che in seguito scoprirono a scuola. È possibile che l’esempio di Sant’Agostino testimoni un fatto simile. Dice di essersi lamentato con i genitori delle botte ricevute per mano dei suoi maestri ma non parla mai di aver ricevuto delle botte dai genitori. Tuttavia, il fatto che questi ultimi abbiano accolto le sue lamentele con scherno lascia pensare che non avessero niente contro la violenza educativa e che avessero poche ragioni per non utilizzarla. L’esempio di Montaigne, che racconta di essere stato allevato con molta dolcezza da suo padre, è più significativo. Avendo conservato tutta la sua sensibilità, fu sconvolto dalla violenza dei suoi maestri del Collegio di Guyenne. I primi autori cristiani che si espressero sulle punizioni corporali per raccomandare di moderarle o di rinunciarvi, parlarono soltanto, per quanto ne so io, delle punizioni scolastiche, e in nessun caso della violenza educativa genitoriale. Questo silenzio era assordante nel senso proprio del termine, poiché letteralmente impediva di sentire la sofferenza dei bambini, e anche accecante poiché impediva di vederla.


L’estrema concisione. Quando sono richiamate da alcuni autori di autobiografie, anche se frequenti, le punizioni corporali vengono descritte solo molto brevemente, mentre in realtà sono state subite durante tutta l’infanzia.


La negazione. “Oggi nessuno picchia più i bambini. Le fruste servono solo a picchiare i cani” (Sentito in una ferramenta in cui avevo chiesto se vendessero ancora molte fruste).


L’indifferenza. È uno degli atteggiamenti più frequenti.


La negazione della violenza educativa come forma di violenza. I sostenitori della sculacciata darebbero solo sculacciate “sul pannolino” o degli “schiaffetti” sulle mani.


La credenza attuale alla resilienza. Con il valore oggi dato alla resilienza, si è stabilita l’idea che in fin dei conti la riproduzione in età adulta di ciò che si è subìto da bambini sia minoritaria, ossia molto rara. Alcuni arrivano addirittura a sostenere che la riproduzione è “un mito”. Questo errore è dovuto al fatto che i cantori della resilienza non fanno distinzione tra il maltrattamento identificato come tale e la violenza educativa ordinaria alla quale prestano poca attenzione. Nei casi di maltrattamento, cioè di violenza più rilevante rispetto alla media ammessa in tale o tal’altra società, le vittime hanno l’occasione di incontrare delle persone che facciano loro comprendere che sono state maltrattate e che le consolino, ad esempio che le sottraggano ai genitori che le maltrattano. I bambini hanno quindi l’opportunità di prendere coscienza che ciò che hanno subìto non era normale e possono in tal modo evitare di riprodurlo. Ma nel caso della violenza educativa ordinaria, più intensa in alcuni Paesi rispetto al maltrattamento in altri, il bambino incontra solo persone che gli dicono che ha meritato ciò che ha ricevuto, che è normale che i genitori picchino i figli, che gli sta bene, ecc. In questo caso, la riproduzione è il caso più frequente. E, purtroppo, le affermazioni imprudenti sulla resilienza tendono a occultarla.


La localizzazione inoffensiva. Secondo molte persone, “mai sculacciare: troppo rischioso dal punto di vista sessuale, piuttosto schiaffi”, oppure “mai sul viso, troppo umiliante, sempre sulle natiche o sulle cosce”.


La psicanalisi. Ciò che è nocivo e patogeno, secondo la teoria delle pulsioni, non è la violenza educativa che sarebbe inflitta tra l’altro solo da parte di genitori sadici, ma le pulsioni del bambino che hanno bisogno di essere controllate dalla legge manifestata, se ce n’è il bisogno, attraverso le sberle (cfr. Christiane Olivier, Michel Pouquet e altri).


La visione pessimista del bambino. Questa nasce, di certo, in un clima di violenza. Il bambino picchiato impara nello stesso momento di essere cattivo, disubbidiente, ribelle, pigro, insopportabile, viziato. E che lo sono tutti i bambini, da cui il peccato originale, pulsioni sadiche, violenza fondamentale.


L’idealizzazione dei genitori. Si preferisce ricordarsi degli aspetti positivi della personalità dei genitori. Quindi si minimizza o si arriva a dimenticare le botte ricevute.


La denuncia del maltrattamento. Spesso è un modo di mettere alla gogna qualche carnefice di bambini permettendo così di sviare l’attenzione dalla violenza educativa ordinaria, spesso tranquillamente praticata dalla persona che denuncia il maltrattamento.


La credenza del valore educativo della violenza è radicata solo nella psiche di coloro che tale violenza hanno subìto, per quanto minima, e che ne sono quindi divenuti i suoi difensori. È raro che coloro che non hanno subìto violenza ne diventino i difensori. Ma è altrettanto raro che coloro che non l’hanno subita abbiano una sufficiente convinzione anti-sculacciata per farsene messaggeri, o che la propria convinzione sopravviva allo scontro con chi difende la posizione opposta. Ecco perché diventa tanto importante conoscere queste difese.


Tale conoscenza è tanto importante per tutti, poiché esse dominano e intralciano una gran parte della nostra psiche e creano degli angoli morti nella nostra visione della realtà.