capitolo vi

Il supplizio di casa: i compiti

Alle elementari farmi fare i compiti era un incubo. Mia madre mi chiedeva, a diversi intervalli della giornata: “Giulia quando fai i compiti?” e la mia risposta, puntuale come un orologio svizzero, era: “Dopo li faccio, mamma”.


Il risultato? Cominciavo a mettermi sui libri verso le nove di sera e fino alle undici ero lì, a lamentarmi sull’inutilità dei compiti per casa, con il mio povero padre che, complice di aver assecondato le mie attività ludiche per tutta la giornata, era condannato a fungere da controllore finché non avessi riempito le pagine di esercizi.


La domanda che mi sono sempre posta non è cambiata nel corso degli anni: a cosa servono i compiti per casa? In teoria a fissare quanto appreso a scuola, ma la maggior parte degli studenti (me compresa) li ha vissuti più come una punizione, un vero e proprio supplizio.

Ricordo quando, alle superiori, dopo cinque ore di lezioni e una pausa pranzo corrispondente ai Simpson in televisione, aprivo il diario e controllavo: 30 pagine di storia, due versioni di latino, 80 esercizi di matematica e 3 capitoli di scienze, più 4 tavole di disegno… potevano cambiare le materie, ma la mole restava quella: infinita. I giorni trascorrevano chini sui libri e il sabato pomeriggio assumeva tinte leopardiane. Mi sentivo come la contadinella che vien dalla campagna col suo mazzo di fiori, contenta che finalmente sia arrivato il giorno di riposo, solo per ritrovarmi la domenica: “al travaglio usato/ciascuno in suo pensier farà ritorno”1.