Con indosso un bel grembiule colorato e in testa un bianco cappello da cuoco, Sarah, la mia primogenita, quando
aveva tre anni, mi aiutava in cucina: insieme preparavamo la pasta per la pizza. Lei affondava le sue manine nella farina e mescolava gli ingredienti a
uno a uno: l’acqua, l’olio, il lievito, il sale. A poco a poco l’impasto prendeva forma e Sarah lo sbatteva, lo piegava, lo rigirava, lo schiacciava
fino a che diventava morbido ed elastico. Poi le spiegavo che bisognava coprirlo con uno strofinaccio e lasciarlo lievitare al calduccio. Quando dopo
un’oretta la massa era visibilmente cresciuta, e lei la osservava incantata, con grande stupore, ecco che arrivava il momento di stenderla con il
matterello e di nuovo le piccole mani si mettevano al lavoro spingendo con forza sul tagliere di legno. Poi era la volta della farcitura: pomodoro,
olio, mozzarella e un po’ di origano. Toccava a me mettere a cuocere la pizza nel forno che dopo non molto usciva bella profumata e croccante: la cena
era pronta, con grande gioia di Sarah che, fiera e orgogliosa della sua creazione, diceva al papà appena tornato a casa “L’ho fatta io!” e mangiava con
gusto, a quattro palmenti.
Ecco un evento che può sembrare banale e che invece non lo è affatto. In una attività domestica di routine, come la cucina, si cela un significato
profondo ed è proprio il bambino che ce lo rivela: nel preparare il cibo con amore c’è arte, creatività, movimento, trasformazione alchemica. Si parte
da pochi ingredienti che, uniti sapientemente tra loro, come per magia, danno vita a qualcos’altro: la farina con il lievito e il calore del forno si fa
pane, focaccia, torta, biscotti. C’è un’origine, un punto di partenza, e un processo, un mutamento. Ma c’è anche la precisione dei gesti e delle
misurazioni, c’è anche la matematica dei grammi, dei millilitri, c’è la geometria delle forme (la ciambella rotonda come un cerchio, la quiche
rettangolare, i frollini quadrati o triangolari). C’è la sensorialità tattile del morbido, liscio, elastico, quella olfattiva del profumo di vaniglia e
di cannella e, infine, quella gustativa del dolce sapore di cioccolato che si scioglie in bocca… E poi di nuovo la matematica con le frazioni: una fetta
a me, una a te, una al fratellino, ecco che rimane un quarto di torta… Per non parlare della condivisione dei frutti di un lavoro di gruppo: ognuno ha
contribuito a creare qualcosa di nuovo e di utile per il bene della comunità. E infine, gli esercizi di vita pratica per riordinare la cucina in
subbuglio, spazzare la farina caduta per terra, lavare il tavolo su cui si è impastato, ripiegare il grembiule che si è usato.
Il valore didattico della cucina è, a mio avviso, insostituibile. Essa rappresenta infatti una sorta di vero e proprio laboratorio pedagogico. Peccato
si stia perdendo sempre più, sia a scuola, dove le norme igieniche imperano in misura crescente impedendo la maggior parte delle attività educativamente
più significative, sia a casa, perché le mamme hanno sempre meno tempo per cucinare e ricorrono in misura sempre maggiore a pasti pronti o prodotti
surgelati da scaldare velocemente nel forno a microonde, con effetti dannosi sia sulla salute fisica dei bambini che su quella psicoemozionale.
Consentitemi, a questo proposito, di aprire una parentesi che mi porta poi ad introdurre ulteriori considerazioni.