Introduzione

Da piccola sognavo di fare la ballerina, oppure la pasticcera.

Il primo desiderio si è presto “sgonfiato” per la troppa rigidità che mi si richiedeva in palestra, al corso di ginnastica artistica. Io stavo a quella disciplina quanto il piede sinistro sta al piede destro durante una spaccata: al massimo livello di distanza possibile. È bello cercare di migliorare e provare a superare i propri limiti, ma se si chiamano “limiti” un motivo ci sarà, ed è bene prenderne atto e optare per qualcos’altro, quando proprio non ce la si fa.


Così la ballerina dei mei sogni di bambina ha lasciato campo libero alla pasticcera. Forse sarebbe più indicato il termine “pasticciona” perché, mettendomi alla prova in cucina, riuscivo a ottenere risultati strepitosi prima di tutto in termini di scodelle impilate una sull’altra, posate ammassate, bucce sparse e schiume colate, patacche e farciture, mille e un uovo split e banane strapazzate…


I genitori lavoravano, si stava in casa da soli. Io leggevo e cucinavo, mia sorella sfogliava e disegnava.


Se il meteo lo permetteva uscivo in strada, o nello stretto cortile del condominio “Quattro Stagioni”. C’era un mondo di meraviglie fatto di foglie, sassi, nidi, nuvole, vento, piccoli animaletti, altri bambini.


Nell’albergo dei nonni lavorava la cuoca Fabriana, una dei miei mentori in fatto di storie. Quante ne ho sentite raccontare da lei e dalle nonne, mentre sbucciavano e pelavano, saltavano e mescolavano sotto la supervisione silenziosa del nonno capocuoco…


La cucina era un luogo di magia e di verità insieme, c’erano vapori, rumori, profumi forti: in quel luogo dove la fatica piombava addosso alle gambe e lasciava sulle mani gonfiori e rossori, si trasformavano materie prime naturali in appetitosi nutrimenti per il corpo e per la mente dei villeggianti. Succedeva anche alle parole, alle risate, ai sospiri, ai lamenti: tutte queste cose si gonfiavano, si coloravano, acquistavano sapore dentro quella cucina. I racconti si insinuavano sotto i taglieri infarinati, dentro i barattoli delle spezie, fra i piatti impilati nei lavelli, nelle celle del grande frigorifero.


I miei sensi di bambina ne hanno catturati a centinaia e ogni tanto, inaspettatamente e sorprendentemente, ne riemerge qualcuno.


La cosa strana è che la cucina non doveva far parte di questa introduzione, senonché una mattina d’estate, all’ipermercato, ho incontrato Rahel.


Come autrice e narratrice incontro sempre tanti bambini a cui leggo storie e propongo giochi di racconti. Ma se questi bimbi mi trovano in altre situazioni, fuori dal cerchio magico della fantasia, stentano a riconoscermi. Per loro, giustamente, è importante la storia, non chi l’ha inventata.


Rahel non mi ha riconosciuta. Sono stata io a ricordarmi di lei quella mattina. Aspettavo mia figlia che era in fila al bar del centro commerciale, lei aspettava la sua mamma.


Le dico: “Ciao! Come stai? Ci siamo viste l’altra sera in libreria, ricordi?”. Mi scruta, mi indaga, mi riconosce, chiama la madre e le grida: “Mamma, c’è quella delle storie!”


La mamma conferma e sorride. Rahel si fida ancora di più, cominciamo a parlare. Sorseggio il caffè insieme alla voce della piccola e di sua madre che mi raccontano quanto siano belle per loro le parole, metterle insieme, condividerle, inventarle e raccontarle in situazioni sempre nuove.


Io sento in testa e nel cuore un gioioso formicolio… è la conferma che le frasi e le strategie che sto suggerendo a me stessa e ai miei lettori e lettrici in questo libro possano essere utili, non lascino il tempo che trovano, che chi desideri trovare spunti originali, interessanti possa cercarli qui e non rimanga disatteso? Forse è così.