prima parte - partorire con dolcezza - capitolo i

Rivendichiamo il diritto
di ogni donna a partorire

Nella nostra cultura il parto viene considerato una procedura medica, e gran parte del dibattito si concentra su sicurezza e statistiche, come definite dai medici, con un minimo margine di discussione o di dissenso – specie per chi si trova al centro dell’intera faccenda: la donna stessa. Questo capitolo trova un equilibrio tra l’ottica medica e le implicazioni personali che il parto comporta per la madre, il bambino, il padre, le famiglie, rivendicando un approccio più ampio in cui venga riconosciuto il potere del parto e la sua centralità nella vita sociale ed emotiva delle famiglie.


Il parto è una questione di donne, una questione di potere; il parto è, quindi, una questione femminista. Il mio ragionamento sarà pure corretto, ma nei Paesi occidentali quello del parto è un tema rimasto, per diversi anni1, in coda all’agenda femminista – molto dopo questioni quali pari opportunità, molestie sessuali, sesso e politica, l’immagine del corpo, solo per citarne alcune.


Il femminismo si è battuto per molte altre tematiche legate alla salute femminile, opponendosi alla medicalizzazione dell’ulteriore, e cruciale, rito di passaggio della vita della donna nella nostra cultura: la menopausa. Tuttavia all’interno del pensiero femminista non sembra essersi sviluppata una riflessione sulla nascita equivalente, e di pari proporzioni. Eppure la maggior parte delle donne appartenenti alla nostra cultura, ad un certo punto della propria vita, partorirà, esperienza che, per gran parte di loro, corrisponderà alla prima in qualità di pazienti ospedaliere, posizione, questa, che implicherà una perdita di autonomia. Molte vivranno il conflitto tra i propri desideri, bisogni e certezze e l’approccio iper tecnologico prodotto dalla medicalizzazione della nascita.


Tale medicalizzazione – basata sul principio per cui ogni parto comporta potenzialmente gravi rischi e suffragata dall’infatuazione della nostra cultura per la tecnologia2 – non ha recato vantaggi alla maggioranza sana delle madri e dei bambini statunitensi e di altri Paesi occidentalizzati.


Per quanto gli Stati Uniti abbiano una spesa sanitaria superiore a qualsiasi altro membro dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico)3, l’elevato tasso di mortalità infantile ivi registrato li fa figurare ventiseiesimi su trenta Paesi industrializzati – al pari di Polonia e più in basso dell’Ungheria – in termini di sopravvivenza infantile. Pari preoccupazione desta la mortalità materna, che di recente4 negli Stati Uniti ha subìto un incremento, forse in ragione della crescita del numero di cesarei. Nel 2006 il 31,1 per cento delle statunitensi ricorse al cesareo5, (il dato relativo al Canada per l’anno 2005-2006 era 26,5 per cento6, 23,5 per cento in Inghilterra7). Confrontate questi dati con il 10,5 per cento registrato negli Stati Uniti nel 19708, e con le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che consiglia di non superare il 10-15 per cento9.