terza parte

L'ostetrica al fianco della donna
quando la gravidanza si interrompe

Nell’opinione comune delle persone, l’ostetrica è “quella che fa nascere i bambini”.


A volte, i bambini che nascono sono già morti, ma l’ostetrica è lì lo stesso, insieme alla loro mamma.


Eppure, attualmente, nella realtà dove lavoriamo, raramente una donna incontra l’ostetrica se la gravidanza si è interrotta nelle prime settimane.


Nel momento in cui viene in ospedale per “raschiare”, “pulire”, “aspirare” quello che esisteva dentro di lei e non c’è più, o si è fermato, non si è sviluppato, trova un’infermiera.


La terminologia medica, nelle prime settimane di gravidanza, parla di prodotto del concepimento e di embrione, facilitando lo spostamento e la riduzione delle emozioni che circondano la perdita a una dimensione contenuta.


Quasi come se quello che prima c’era non possa essere definito “bambino” e la donna che lo portava non sia giunta allo status di “mamma” e quindi non sia necessaria la presenza di un’ostetrica.


A volte però, situazioni impreviste fanno in modo che anche l’ostetrica si trovi nella condizione di assistere donne (mamme?) che hanno in corso un aborto spontaneo: in questo caso quella che si crea è una relazione complessa dove può diventare facile lasciarsi trasportare dal proprio vissuto emotivo o mettere una barriera fra sé e la donna.


È ancora la terminologia specifica medica che, in un certo modo, permette al personale di indossare una sorta di corazza: “Signora, dobbiamo pulire bene l’utero dal materiale ovulare, altrimenti continuerà a sanguinare…”, “Allora, alla fine della seduta operatoria, facciamo il raschiamento alla signora della camera 31”, “Signora è meglio che diamo anche un’aspirata nella cavità così siamo sicuri di avere tolto tutto”… E che sarà mai? Si tratta di togliere un po’ di materiale che non ha più senso tenere in utero!


Stare vicino alla donna che sperimenta un aborto porta, in alcuni casi, a dare interpretazioni personali alla modalità con cui la stessa affronta l’esperienza.


Piange e singhiozza? È fortissima la tentazione di fare e dire qualcosa per consolarla a volte con frasi del tipo: “Sa, è meglio così, a volte la natura interrompe quello che era partito male…” Pensando che sia consolante per lei aver evitato di portare avanti la gravidanza di un bambino con handicap.


Oppure: “Coraggio, presto potrà cercare di averne un altro: è ancora così giovane!” Pensando che questa perdita sia rimpiazzabile da una nuova gravidanza e negando il dolore della perdita attuale.


O ancora: “Capita frequentemente, sa? È capitato anche a me!” Come se il “mal comune” possa essere in qualche modo di aiuto o l’aver vissuto la stessa esperienza induca a credere che l’altra persona provi le stesse emozioni provate in precedenza dall’operatrice.


Non piange? Facile pensare che abbia già elaborato l’evento e se ne sia fatta una ragione.


E allora via, con fare efficiente e professionale si prepara l’occorrente per l’intervento chiacchierando d’altro e la si assiste dopo, come se niente fosse successo, tanto più che la brevità della procedura e della degenza facilitano le cose…


Lo so, si dovrebbe essere lì con lei, accettando e accogliendo i diversi modi di vivere l’esperienza, senza dare giudizi e interpretazioni; stare vicino al suo dolore in modo empatico, accettandolo come parte dell’evento senza negarlo, riconoscendone la manifestazione come parte dell’elaborazione dell’esperienza e quindi di grande aiuto.


Si dovrebbe accettare di non poter fare alcunché per alleviarne la sofferenza, ma non per questo sentirsi impotenti o inutili.


Si dovrebbe imparare ad accettare senza interpretare l’atteggiamento apparentemente indifferente, e non dimenticare che, anche se per poco, questa donna è stata madre, ha fatto progetti, sogni, ha avuto speranze.


Si dovrebbe ricordare che il suo dolore non è necessariamente corrispondente al tempo passato con il piccolo e con le dimensioni che aveva quando ha smesso di vivere e che, a differenza delle mamme il cui piccolo muore “più grande”, a loro non rimane neppure un corpicino, una fotografia, un’impronta su cui piangere.


Arrivare a questa consapevolezza è un percorso a volte lungo, che non sempre si acquisisce nel corso degli studi ma che dobbiamo alle donne.


Le politiche della gestione del personale stanno cambiando e negli anni a venire le donne avranno sempre più probabilità di incontrare l’ostetrica durante tutte le fasi del loro divenire madre, anche quando il percorso si interrompe prima del previsto.


Auguriamo alle donne di trovare vicino a sé ostetriche che sappiano accompagnarle, in un’alleanza e accoglienza che da sempre contraddistingue la nostra professione.


Margherita Locatelli e Stefania Conti, ostetriche a Bergamo