Quando una donna scopre di aspettare un bambino si fanno largo in lei emozioni non immaginabili prima. Sole e
nuvole, cielo e terra, fantasia e realtà, sensazioni spesso contrastanti fra loro, un misto di gioia, felicità immensa, ma anche di incertezza, di
paura, di incredulità. Tutto è rimesso in gioco, la propria identità e le proprie abitudini, tutto gradualmente dovrà fare spazio a una nuova vita che
abbiamo creato e cresce dentro di noi. Che sia il primo figlio o uno successivo, che ci siano disturbi fisici o no, nei primi tre mesi la gravidanza
viene vissuta soprattutto a livello mentale, con la fantasia. Se la gravidanza arriva a termine, queste sensazioni, lasciano gradualmente spazio sia
fisico che mentale al bambino che cresce, si evolvono grazie alle trasformazioni fisiche del corpo della mamma e in seguito ai movimenti fetali che
piano piano avverte con chiarezza.
La maggior parte delle gravidanze che, purtroppo, non arrivano al termine, si collocano proprio nel primo trimestre e i vissuti delle mamme che si imbattono in questa difficile e dolorosa esperienza passano improvvisamente da sentimenti di euforia e di incredulità a emozioni pervase dal dolore e dal voler trovare un perché a ciò che sta accadendo proprio a loro. Perdere un piccolo in questo periodo della gestazione rende improvvisamente “esterno” un bambino più che altro immaginato nella propria intimità, che da poche settimane si stava facendo spazio nella mente e nel corpo di sua madre, creando di fatto una frattura profonda e improvvisa fra i vissuti mentali dell’essere incinta e quelli del non esserlo più.
Il dolore fossilizza queste sensazioni e rende ancora più difficile e meno elaborabile (soprattutto per la mamma) tutto ciò che di solito accade molto velocemente. Nella mente della donna non è più possibile la gradualità del passaggio da fantasia a realtà che i movimenti fetali e il trascorrere dei mesi della gravidanza portano con sé, e la confusione che si prova deriva anche dal fatto che, diciamolo chiaramente, una mamma non è mai pronta, anche se prima o poi ci pensa, a perdere un bambino!
Inoltre, la prassi ospedaliera è spesso fatta di protocolli che prevedono in questo caso una serie di interventi medici, dopo i quali la mamma è lasciata a se stessa. In alcuni ospedali, per fortuna non in tutti, la mamma in attesa di raschiamento o in osservazione per minaccia d’aborto è nei reparti di ostetricia, ricoverata insieme a donne in travaglio o che hanno appena partorito.
Di solito, si sente dare spiegazioni sia dai medici che dalle persone intorno a lei del tipo: “Meglio ora che dopo” oppure, (questo è stato detto a me personalmente) “Era solo un ammasso di cellule”, e “Era solo il prodotto del concepimento, ancora non si era formato!”, “Coraggio le andrà meglio la prossima volta”.
Non credo che alle donne servano affermazioni come queste, perché per loro quell’ammasso di cellule, il prodotto dell’unione con l’uomo che si ama, non è sostituibile con un altro, e che ci sarà una prossima volta non è scontato.
Mi rivolgo quindi alle mamme di questi bambini nati troppo presto dicendo che penso che la chiave per affrontare un aborto sia quella di non negare o minimizzare quello che sta succedendo, ma quella di cercare e pensare a spazi di rielaborazione in cui possano gradualmente trovare ascolto anche dopo che tutto si è concluso.
Quel bambino era tuo figlio comunque, e voi eravate i suoi genitori, è purtroppo nato prima del tempo, non è colpa di nessuno, la medicina spesso non sa precisamente cosa la natura decide e perché, ed è inutile negare il dolore che tutto questo porta con sé…
Credo sia necessario dare dignità, un senso e un posto anche a lui e a voi genitori, non considerandolo qualcosa di incompiuto ma a tutti gli effetti una persona. Non ne faccio una questione religiosa, né etica, ma puramente affettiva e di integrazione degli eventi della vita nella personalità di ognuno e nella relazione di coppia.
Il vissuto paterno e materno è certamente diverso ed è qui che sta la risorsa e la ricchezza: insieme, ognuno con le proprie reazioni, è possibile cercare di affrontare e convivere con quanto è accaduto e farsene una ragione. In fondo, è un po’ come fare i genitori “davvero”: c’è bisogno di prepararsi all’imprevisto e di essere flessibili, di prendere le dovute informazioni ma di pensare poi con la propria testa dandosi tempo. Spazio per la rielaborazione e tempo: questo serve anche a tutti i genitori quando hanno un bimbo piccolo! Non le spiegazioni o i metodi uguali per tutti e impartiti a mo’ di dogma culturale da presunti esperti!
Un’altra risorsa importante penso sia il confronto e la condivisione con altre donne e famiglie che hanno subìto una perdita in gravidanza. Cercare servizi dove esistano tali gruppi o crearne spontaneamente, magari individuando anche un serio professionista che dia l’adeguato sostegno psicologico, può fare la differenza nel non soffocare la delusione e il dolore che inevitabilmente si affaccia dentro ogni genitore. Sarebbe necessaria inoltre una formazione specifica per tutti gli operatori coinvolti nell’accompagnare le famiglie in questo difficile momento, che miri da subito a un contenimento emotivo capace di non far sentire le donne ancora più sole e “svuotate”.
Un’ultima riflessione la vorrei dedicare al ruolo dell’ecografia che in una cultura come la nostra, basata sull’immagine, è diventata una protagonista irrinunciabile di quasi tutte le gravidanze. L’uso di questo strumento per accertare che tutto fili liscio non si discute, ma l’abuso che porta molte donne a farne circa una al mese e anche più, soltanto per “vederlo”, è a mio avviso molto discutibile. Siamo nella società del “tutto e subito” e le tecniche ecografiche a tre, quattro dimensioni, sono molto costose e di dubbia utilità come esame di routine. Di norma si suggeriscono alle donne circa tre ecografie a gravidanza, ma la media italiana è molto più alta. Credo che questo anticipi e alteri la fantasia delle mamme e che in caso di morte uterina vedere il bimbo nello stesso video che, magari pochi giorni prima, aveva mostrato un bimbo minuscolo ma vitale, non sia di grande aiuto alla necessaria e successiva elaborazione della sua perdita. Come sempre conoscere la fisiologia ci aiuta: se rispettiamo la natura, senza volerla anticipare per forza, anche quando si verifica l’irreparabile, essa ci dà gli strumenti per andare avanti. Perciò sono d’accordo col fare la prima ecografia intorno alla dodicesima settimana, quando di solito il rischio di aborto è ormai molto basso.
Per concludere questo mio breve contributo, mi unisco alla carezza di cui Giorgia parla all’inizio di questo meraviglioso libro, dandone prima di tutto una a lei, ringraziandola pubblicamente della tanta sensibilità e professionalità dimostrata nel trattare questo argomento non certo dei più semplici, poi vorrei darne tante altre sfiorando col pensiero tutte le mamme che custodiscono per sempre nei loro cuori questi piccolini nati troppo presto.
Alessandra Bortolotti, psicologa perinatale a Firenze