terza parte

Montata lattea, cosa fare?

Purtroppo quando un bambino muore il corpo della mamma procede nella sua fisicità come se nulla fosse successo, e ci vogliono alcuni giorni perché “capisca” che cos’è avvenuto. Quindi è molto probabile che – anche senza che ci sia un bambino a succhiare e a far produrre gli ormoni del latte all’ipofisi della mamma – il latte arrivi comunque, e la donna si trovi ad affrontare una montata lattea nel momento più terribile della sua vita.


Un tempo, quando si viveva in comunità, quel latte era comunque prezioso perché poteva salvare la vita a bambini di altre donne, sorelle, zie, cognate, amiche, rimasti orfani di mamma (o comunque separati da lei), e in questo modo la produzione di latte della mamma (rimasta “orfana” del suo cucciolo) e la sua maternità ‘vuota’ trovavano un senso. Ma oggi, chiuse come siamo nelle gabbie dorate dei nostri appartamenti monofamigliari, questa soluzione viene in mente a pochissime donne che decidono di donare il latte alle banche del latte.


Nella normalità della cultura occidentale la donna che ha perso un figlio inizia la sua ‘battaglia’ per far andare via il latte, battaglia che può essere condotta sia in maniera naturale, levando poco latte più volte al giorno, finché l’ipofisi non rallenta la produzione di ormoni e quindi lentamente il latte diminuisce e poi scompare, sia in maniera chimica assumendo pastiglie che bloccano in un solo colpo la produzione di ormoni.


Purtroppo però, spesso, le pastiglie funzionano solo quando la produzione è stata avviata da pochissimi giorni, e già dopo un mese può essere difficile che riescano a combattere la produzione ipofisaria. In quel caso molte donne hanno trovato utile fasciarsi il seno e bere poco per contrastare la produzione di latte, assumendo nel frattempo degli antidolorifici. La tanto suggerita purga serve solamente a eliminare i liquidi dal corpo della donna, impedendo così all’ossitocina di richiamarli efficacemente dal sistema linfatico per produrre latte, per un limitato lasso di tempo.


I sentimenti che si provano di fronte alla produzione di latte quando il bambino muore sono ambivalenti, ma sempre ovviamente molto dolorosi. Da una parte il pensiero fisso è l’incredulità di vedere che il nostro corpo continua come se niente fosse un percorso che invece si è interrotto, continua in un certo senso a tradirci. Non contento di aver partorito un cucciolo morto, in realtà si comporta come se il bambino fosse vivo e mette in crisi la nostra certezza che corpo e mente siano un tutt’uno.


D’altra parte ci conforta vedere come – se il bambino fosse stato vivo – avremmo potuto nutrirlo, e quindi forse tanto “cattive mamme” non saremmo state. Ma in ogni caso non se ne esce: un figlio che non c’è più è uno dei momenti più dolorosi della vita e si vorrebbe tanto svegliarsi e scoprire che non era vero niente e che è stato solo un brutto sogno. Condividere, parlare, piangere, urlare e disperarsi con altre donne è l’unica soluzione possibile per cavarsela e uscirne un po’ meno a pezzi.


Carla Scarsi, scrittrice e giornalista