capitolo i

Chi si occupa dei nostri figli:
il dilemma di ogni genitore

È mattina. Helen si sveglia, si stiracchia e si rigira nel letto per dare al marito il bacio del buongiorno. Con sua grande sorpresa lui non c’è. Sente dei passi nella stanza, si volta e trasale nel vedere un estraneo avanzare verso di lei, con una voce e un volto a lei sconosciuti. L’estraneo si china su di lei, le braccia protese, quindi la solleva dal letto.Il suo tocco è spaventoso. Helen scoppia a piangere e subito dopo, all’improvviso, si sveglia alla luce del sole.


Helen ha fatto un brutto sogno. A breve gli strascichi emotivi di questo inquietante episodio svaniranno. Ma per milioni di bambini l’incubo di Helen è troppo spesso una realtà, una realtà che si ripete di continuo nel corso dei loro primi anni di vita.


Pensate alla paura e all’impotenza di un bambino che non è in grado di parlare o capire quello che gli viene detto, che non sa proteggersi da un estraneo – una nuova figura di accudimento con una voce, un aspetto, un odore e un tocco sconosciuti. All’improvviso, senza spiegazioni che comunque non saprebbe comprendere, il bambino si trova davanti una persona del tutto diversa dalla madre o dalla figura di riferimento a lui più familiare, con la quale aveva iniziato a sviluppare un importante legame di attaccamento.


Questa esperienza, comune a un numero crescente di bambini sotto i due anni appartenenti al ceto medio, illustra un fenomeno che si è andato sviluppando negli ultimi vent’anni e che è il risultato di una serie di pressioni a cui la famiglia medio-borghese non era mai stata sottoposta fino ad allora. Oggi il reddito familiare è sempre più costituito da due stipendi e, a partire dagli anni Novanta, la donna del ceto medio ha iniziato a perseguire obiettivi di realizzazione professionale che risultano spesso in conflitto con il suo ruolo di madre.


Molte professioni svolte fuori casa, oltre a essere intellettualmente stimolanti e fonte di soddisfazioni personali, costituiscono un utile introito all’economia familiare. Una moglie che abbia un buon stipendio o che stia realizzando una carriera importante, spesso ne trae un appagamento e un senso di valorizzazione di sé a cui difficilmente è disposta, seppur per breve tempo, a rinunciare.


Non ci si sorprenda, quindi, del continuo esodo delle madri che lasciano la casa per il posto di lavoro. In genere una madre oggi riprende a lavorare entro i sei mesi del bambino, che viene affidato a una figura di riferimento sostitutiva o a strutture competenti. Le ragioni sono di solito economiche. I genitori spesso ripetono: “Ci vogliono due stipendi per pagare le bollette. Abbiamo trovato una meravigliosa baby-sitter che si prenderà cura del bambino”.


È convinzione diffusa che qualunque persona minimamente responsabile sia in grado di cambiare il pannolino a un bimbo di pochi mesi, di nutrirlo, di fargli il bagnetto, insomma di prendersi cura di lui.


Inoltre, le donne con un alto livello di istruzione o che abbiano conseguito una specializzazione (come avvocati, medici, insegnanti, scrittrici, giornaliste) sono spesso portate a pensare che la propria professionalità e competenza andrebbe persa nello svolgimento delle quotidiane mansioni legate all’accudimento di un bambino. È altresì opinione generale che le cure offerte da un sostituto materno vadano sempre bene, a condizione che la persona in questione sia responsabile, non maltratti il piccolo e si preoccupi di tenerlo pulito, ben nutrito e al sicuro.


Si tratta di idee generalmente condivise che tendono a tranquillizzare e a ridurre il senso di colpa e l’ansia di milioni di genitori che, ogni giorno, vanno a lavorare lasciando i figli nelle mani di figure sostitutive per buona parte della giornata.


Ora tali opinioni, tanto rassicuranti quanto ampiamente diffuse, sarebbero valide se i sostituti scelti fossero non solo persone affettuose e competenti, ma anche garanti di una continuità di accudimento nei primi anni di vita del bambino.