prima parte - capitolo vi

Portare ed essere portati

Il prototipo di tutto il prendersi cura del bambino è il tenerlo in braccio.

D. Winnicott

La pratica di puericultura più importante da adottare per lo sviluppo di bambini sani emotivamente e socialmente sarebbe di portare il bebè sul corpo della madre o di un sostituto materno tutto il giorno.
È questo il miglior vaccino comportamentale che esista.

J. W. Prescott

A spasso per il mondo


È curioso come non esista in italiano una sola parola per tradurre il termine francese portage o l’inglese baby-carryng. Noi dobbiamo ricorrere ad espressioni più lunghe e contorte come “portare addosso o sulla schiena il bambino”.


Nel creolo della Guinea-Bissau si usa il termine bambu per indicare il trasporto del bambino sulla schiena della mamma (da cui deriva bambaràn cioè il pezzo di stoffa utilizzato per legare il piccolo). Questa parola ha un significato molto ampio, che può essere paragonato al francese maternage o all’holding winnicottiano, in quanto ingloba il concetto di protezione e costruzione della personalità del bambino.


La pratica del portage, universalmente diffusa, in tutti i continenti del nord e del sud del mondo, dalle Ande all’Artico, è stata “riscoperta” nel mondo occidentale solo da alcuni decenni.


Oggi da noi va di moda portare i bambini nel marsupio o negli zainetti mentre, paradossalmente, le donne immigrate si vergognano a girare per le nostre città con i bambini legati sulla schiena da un pezzo di stoffa.


Eppure nelle società tradizionali di tutto il mondo da sempre le mamme portano così i loro bambini da quando hanno pochi giorni di vita fino a circa due anni, età in cui avviene il distacco dal seno e dal corpo materno.


Nelle società di cacciatori-raccoglitori i bambini vengono portati per l’80-90 % della giornata, nelle società tradizionali, cioè non industrializzate, per il 56% del tempo, mentre negli Stati Uniti i bambini passano solo il 25% del giorno in contatto fisico con i genitori.


In Africa la mamma è un vero e proprio mezzo di trasporto per il suo bambino, che porta attaccato a sé sulla schiena per mezzo del bambaràn mentre lavora, va al mercato o balla sulla piazza del villaggio.


I piccoli inuit invece vengono portati nell’apposito cappuccio dell’anorak, il giaccone di pelle di caribù indossato dalla madre, in cui sono protetti dal freddo polare grazie alla pelliccia che li ripara.


Anche per i bambini kung del deserto del Kalahari il mezzo di trasporto è parte del vestito della madre, il kaross, un indumento di pelle d’animale multifunzionale che serve anche da coperta. Questo tipo di fascia porta-bebè, che poggia sull’anca, consente al bambino una grande libertà di movimento e accesso al seno, che il piccolo può succhiare a suo piacimento mentre gioca con gli ornamenti che pendono dal collo della madre.


I Nativi americani trasportavano i loro bambini sulla schiena in tipiche culle, le cradleboard, costituite da un supporto di legno e un rivestimento in pelle di daino, adornate di perline o pitture decorative. Potevano essere attaccate ad un albero mentre la mamma lavorava al villaggio o nei campi ed erano molto utili per trasportare in tutta sicurezza i bambini durante i lunghi viaggi a cavallo: una sorta di precursori degli attuali seggiolini da automobile! All’interno della culla veniva posto del muschio o della corteccia di ginepro finemente sminuzzata con funzione di pannolino. Questi materiali naturali, costantemente rinnovati, avevano anche una funzione antisettica, di protezione della pelle del neonato. A volte in cima alla culla veniva teso un pezzo di cuoio, una sorta di tettoia, per proteggere il bambino dal vento e dal sole, su cui si appendevano amuleti, borse di medicina contenenti il cordone ombelicale, acchiappasogni per attirare l’attenzione del bambino ed educarlo al gusto del bello.


Ogni parte della cradleboard aveva un preciso significato simbolico e nel suo complesso essa rappresentava “una casa per l’inizio della vita”, un piccolo nido accogliente per il bambino che si affacciava alla vita.