CAPITOLO IV

L'invenzione delle malattie

Cosa ostacola la libera espressione delle idee in campo medico

Inventare nuove malattie è l’altro espediente, accanto alla strategia del catastrofismo, per modificare il concetto di salute e promuovere la vendita di farmaci e vaccini. Prima di illustrare queste nuove strategie di marketing, vorrei chiarire in questi primi paragrafi una questione preliminare a cui mi sembra importante cercare di dare una risposta, che consiste per l’appunto nella domanda che dà il titolo a questo paragrafo.


Diceva uno scrittore famoso dell’800, Anatole France: “Ho trovato in alcuni sapienti il candore dei fanciulli, e si vedono ogni giorno degli ignoranti che si credono l’asse del mondo. […] L’umiltà, rara nei dotti, è ancor più rara negli ignoranti1.


L’umiltà è scarsa, o manca del tutto, quando chi ti contrasta non prova almeno una volta a riflettere seriamente sui tuoi dati e i tuoi argomenti, senza farne una questione di tifoseria, senza schieramenti di fede. L’umiltà è assente quando non si affronta una riflessione critica come si dovrebbe fare in qualsiasi dibattito scientifico, cioè senza recriminazioni e accuse, elementi che, al contrario, abbondano nelle discussioni su questi temi in una misura assolutamente sconosciuta ad altri ambiti riguardanti la salute e la sanità.


Per una regola di correttezza vorrei perciò cercare di comprendere quali fattori obiettivi possano indurre un qualunque medico a rifuggire da posizioni di analisi critica nei confronti di una qualunque terapia farmacologica sostenuta dal sistema sanitario pubblico, indipendentemente dall’uso personale (ossia dall’applicazione innanzi tutto a se stesso e ai propri familiari degli interventi medici consigliati ad altri), indipendentemente dalle sue osservazioni sul campo, indipendentemente dalle conclusioni cui egli possa essere pervenuto nel corso della pratica medica, specie se lunga. Sto parlando, naturalmente, di quella parte della categoria medica, ed è cospicua, che non riduce il proprio ruolo a quello di copiatori di ricette, ma tiene sempre accesa la consapevolezza critica quando si pone di fronte ai pazienti.


Indico, qui di seguito, una serie di ragioni che mi sembra possano spiegare perché sia così difficile discutere in modo criticamente aperto su alcuni aspetti delle politiche vaccinali, così come su quella, per tanti versi analoga, dell’uso dei farmaci.


In primo luogo vi è il peso della consuetudine storica. In tutti gli ambiti scientifici, il ruolo della consuetudine è indubbiamente benefico, in quanto impedisce di ripetere errori già commessi, o di scoprire l’acqua calda, cose entrambe che vanno evitate con cura, soprattutto in campo medico. Dall’altro lato, però, la consuetudine diviene un fattore negativo quando impedisce di ripensare il passato al fine di migliorare il presente.


I vaccini hanno occupato un ruolo importante nella medicina, ma hanno sempre goduto di uno status un po’ particolare. Da una parte erano considerati quasi dei non-farmaci, perché ritenuti totalmente innocui e privi di qualsiasi reazione avversa o effetto indesiderato. L’unico evento possibile era lo shock anafilattico, che però si presenta eccezionalmente (circa un caso ogni milione di dosi). Dall’altra parte, erano ritenuti l’unico strumento capace di ridurre le malattie infettive. Per anni ai medici è stato insegnato, sia durante gli studi universitari sia in seguito, che i vaccini non fanno mai male, solo bene. Anche oggi nei programmi degli esami di pediatria o della specializzazione si dà ampia enfasi alla loro efficacia e troppo poco spazio allo studio delle reazioni avverse.


La formazione universitaria tende per sua stessa natura a trasmettere nozioni già acquisite e consolidate nel tempo, e non all’esercizio dell’analisi critica di queste stesse nozioni, anche perché si rivolge a un pubblico di studenti ancora del tutto inesperti.


Sembrerebbe, invece, che la pratica della professione possa aprire un vasto spazio per l’esercizio del giudizio critico: l’osservazione diretta dei casi, il confronto tra teoria acquisita e attività sul campo, la raccolta di dati, osservazioni, la stesura di relazioni cliniche, attraverso le quali ripensare alle nozioni apprese valutandole alla luce dell’esperienza acquisita. Un ripensamento che non dovrebbe avvenire in solitudine, ma attraverso un comune scambio di idee con colleghi, centri ospedalieri, operatori e informatori sanitari.


Invece, anche durante la vita professionale, un medico si trova ad essere più cinghia di trasmissione di idee precedentemente acquisite (e sempre più obsolete a mano a mano che si allontanano gli anni della formazione specialistica) o di precetti diramati dai centri direttivi del sistema sanitario e che ben difficilmente possono essere messi in discussione.


Il pediatra di famiglia e il medico di base, infatti, hanno un carico di lavoro importante, sono oberati da richieste di prestazioni di ogni genere da parte degli assistiti, che sono sempre più utenti e meno pazienti, e da parte della burocrazia medica, sicché hanno poco tempo per aggiornarsi o informarsi su tutti gli argomenti. Ho incontrato genitori con conoscenze sui vaccini superiori a quelle di molti miei colleghi. L’aggiornamento di molti medici avviene essenzialmente solo attraverso i dati forniti dagli informatori farmaceutici (cioè i rappresentanti dell’Industria Farmaceutica) e dal materiale scientifico che essi rilasciano o regalano attraverso incontri, seminari o convegni sponsorizzati e organizzati, direttamente o indirettamente, dalle ditte farmaceutiche che giocoforza possono solo presentare gli effetti positivi dei vaccini e dei farmaci in genere.


Per tutto questo insieme di motivi il medico è, di solito, abbastanza arroccato sulle sue idee e ha enormi difficoltà a cambiarle, non ultimo perché queste sue vecchie certezze gli danno sicurezza e modificarle richiede un significativo investimento del proprio tempo. Un investimento scarsamente ripagato in termini monetari, e neppure in termini di prestigio personale, in quanto implica avventurarsi nei difficili e incerti sentieri che si aprono fuori dai domini della Chiesa medica ufficiale, e alle volte comporta anche una capacità di resistenza alle aspettative del malato, alla sua delusione di non vedersi prescrivere alcuna medicina, pur sentendosi male (“Ma come, il dottore non ti ha dato niente da prendere?”), e di resistenza soprattutto al rischio sottile e strisciante di trovarti di fronte proprio al caso il cui decorso peggiora improvvisamente e la famiglia ti accusa di non aver prescritto a tempo debito l’antibiotico. I recenti dati sull’uso e sull’abuso di antibiotici sono indicativi di come i condizionamenti ambientali possano influire sulle scelte professionali dei medici, inducendoli ad allontanarsi da quanto la loro esperienza e la loro competenza suggerirebbero.