I pericoli dell’obbedienza
Nella stragrande maggioranza dei sistemi sociali, l’obbedienza è la virtù suprema, la disobbedienza il supremo peccato. Non intendo con questo riferirmi alla disobbedienza del “ribelle senza causa”, il quale disobbedisce perché non ha nulla per cui impegnarsi, se non il fatto di dire “no”. È questo un tipo di disobbedienza che è altrettanto cieca e impotente del suo contrario, l’obbedienza conformistica che è incapace di dire “no”. Intendo riferirmi invece all’uomo che è in grado di dire “no” perché è capace di affermazioni, che è in grado di disobbedire perché sa obbedire alla propria coscienza e ai principi che ha abbracciato. La disobbedienza, nell’accezione in cui qui si usa il termine, è un atto di affermazione della ragione e della volontà. Non è tanto un atteggiamento contro qualcosa, quanto un atteggiamento per qualcosa: per la capacità umana di vedere, di dire ciò che si vede, di rifiutare ciò che non si vede. Per farlo non occorre che l’uomo sia né aggressivo né ribelle: basta che tenga gli occhi aperti, che sia ben desto e desideroso di assumersi la responsabilità di aprire gli occhi a coloro i quali corrono il rischio di perire per il fatto di essere immersi nel dormiveglia.1
Fino ad alcuni anni fa avevo avuto esperienza dei problemi burocratici e giudiziari in cui erano incorsi quei genitori che avevano rifiutato di far vaccinare i figli. Non mi ero mai posto il problema di cosa sarebbe potuto accadere se ad opporre un rifiuto fosse stato un militare, che è tenuto all’obbedienza di fronte a un ordine che gli venga impartito da un’autorità superiore, inclusa quella sanitaria.
Tale obbedienza può spingersi ad accettare, su di sé, interventi sanitari dei quali si cominci a sospettare non l’inefficacia, ma la dannosità; nei quali una commissione parlamentare individui l’origine non della diffusione di allergie, ma di un’abnorme insorgenza di tumori tra militari molto giovani?