Presentazione

di Roberto Volpi

L’ultima fatica di Eugenio Serravalle è certamente la sua opera più compiuta e riuscita. Opera che si può decidere di leggere come di non leggere – ça va sans dire. Ma che comunque ci interroga; e interroga, paradossalmente, anche coloro che non la leggeranno e perfino quanti non ne sentiranno neppure parlare. Perché certi concetti, certe argomentazioni, certi dati qui riportati e discussi entrano come a dispetto nel dibattito pubblico, anche quando non si vorrebbe, anche quando sono ad essi precluse le tribune più alte e prestigiose. Perché possiedono non soltanto una loro forza interna, una loro capacità esplicativa di rappresentare cosa e come succede, nella fattispecie, nel campo della sanità pubblica. Ma anche, e vorrei dire soprattutto, una autenticità che si sente, si respira in ogni pagina, in ogni discorso, in ogni valutazione. Autenticità che deriva all’autore dalla sua duplice natura di studioso serio e autorevole, e di pediatra stimato perché costantemente alle prese con i problemi dei bambini mai ridotti ad allarme ed esagerazione, per quanto tocchino la sfera dell’infanzia che più si presta ad allarmi ed esagerazioni, quella della salute.


Il lavoro di pediatra sul campo, a contatto con i bambini e i loro problemi – non semplicemente di salute ma di sviluppo e perfino di educazione –, non è in Serravalle un sovrappiù per cercare di dare “corpo” al suo lavoro di studioso ma un “primus” che sorregge quel lavoro, lo indirizza, lo nutre. Questo, rispetto ai suoi precedenti lavori, è ancor più il libro del pediatra che dello studioso. Nella casistica ch’egli porta a supporto delle sue argomentazioni scientifiche non c’è l’inadeguatezza o l’artificiosità che si avverte a volte in operazioni del genere, che partono da posizioni precostituite – e dunque in certo senso ideologiche –, salvo tentare di dar loro sostanza e freschezza con dati che sono poco meno di niente, ovvero fumo, pretesti per sfoggiare una scientificità che latita proprio perché non nasce da “sensate esperienze”. Qui, nelle pagine di Eugenio Serravalle, siamo, e si sente, nel mare addirittura di quelle sensate esperienze – non solo dell’autore, ma vorrei dire di tutta una corrente di pensiero – che proprio per essere tali portano inevitabilmente a ricollocare nel suo argine e a ridimensionare tutta l’esperienza vaccinatoria in Italia e nel mondo occidentale più in generale. Non è, si badi – perfino a dispetto dell’accattivante sottotitolo, di quel “perché non ho vaccinato i miei nipoti1 – un “vaccini sìvaccini no”, un prendere o lasciare, un inappellabile verdetto di condanna di tutta la politica delle vaccinazioni di questi anni, in Italia e fuori. È piuttosto l’invito a ripensare la materia alla luce di una cultura non già alternativa, come sarebbe facile ma ancor più sbagliato etichettarla, e nemmeno alla luce di una controcultura medico-sanitaria che lascerebbe in bocca il sapore di cose già viste, fasi storiche già attraversate, battaglie già combattute e normalmente perdute anche perché immensamente ingenue o presuntuose ma, proprio all’opposto, alla luce di una prospettiva metodologica e filosofica che è insieme umanistica e scientifica, e che sempre meglio e con maggiore efficacia riesce a documentare e interpretare quella materia.