Premessa

Maria Montessori ha goduto nel nostro paese di scarsi riconoscimenti e pare legittimo affermare che il suo apporto alla nascita della pedagogia italiana è stato troppo a lungo sottovalutato. L’atteggiamento a lungo assunto nei suoi confronti è stato troppo spesso di incondizionata adesione oppure di critica preconcetta. Sembra invece più giusto cominciare a tentare un esame più misurato, che colga gli indubbi elementi di originalità insieme ai limiti e alle contraddizioni. Anche perché il percorso della studiosa marchigiana non è stato “continuo”, com’è stato tradizionalmente presentato, ma presenta evidenti diversificazioni interne. Chi scrive, in particolare, è convinto della veridicità della tesi di una Montessori “una e bina”, proposta anni fa, fra gli altri, da Tina Tomasi e Antonio Santoni Rugiu, e ripresa recentemente, con grande lucidità, da Franco Cambi, ad intendere, appunto, l’esistenza di “due” Montessori: una, del primo periodo, legata a una sorta di disegno riformistico e un’altra, da collocare dopo la prima guerra mondiale ed ancora di più nei decenni successivi, più condizionata da una prospettiva irenica e universalistica.


Tina Tomasi, a questo riguardo, sottolinea la profonda sensibilità sociale dimostrata dalla pedagogista marchigiana nelle prime opere, ma scrive anche in maniera molto netta: «Questa robusta dimensione sociale si attenua e si manifesta in toni sempre più sfumati dal 1913 in poi, cioè da quando l’educatrice non si rivolge particolarmente agli oppressi ma a tutti gli esseri umani al di là di qualsiasi frontiera. Il linguaggio della matura signora dal nome prestigioso, ricercata e onorata nei grandi congressi internazionali, non è più quello della giovane donna a contatto con la miseria di un quartiere romano»1. Allo stesso modo Antonio Santoni Rugiu sostiene che «la fortuna che accompagnerà la pedagogista sarà legata all’efficacia del suo metodo, non certo al suo primitivo riformismo sociopedagogico. Di fatto, la stessa Montessori non sosterrà più il vecchio progetto, puntando tutto sull’affinamento della metodologia didattica, e passando via via dalle influenze radicali e massoniche alla collaborazione con enti religiosi, cattolici e protestanti per finire ad elaborare didattiche di carattere liturgico»2.


Franco Cambi ha invece rilevato l’alto grado di politicità della pedagogia montessoriana e come questo si espliciti in particolare nella consapevolezza del legame tra scuola e società e nella necessità che la pedagogia sia alla base di un progetto teso alla emancipazione dell’uomo. Nel primo periodo questo ha un carattere politico-operativo più evidente, mentre nella seconda fase la prospettiva è più politico-utopica, più universalistica e spirituale. «La Montessori delle origini è una pedagogista positivista e riformista […]; è una pedagogista sul campo che pensa il suo “metodo” non in relazione a un laboratorio di pedagogia sperimentale… ma in una precisa (ovvero storica) situazione socio-economica e ai problemi che essa solleva. […] La sua pedagogia è intrisa quindi di politicità, di una politicità democratico-socialista, prepartitica, ma che alimenta quel programma igienista ed emancipativo, il quale si colloca in un’area avanzata del pensiero borghese, che viene assunto operativamente dalla pedagogista marchigiana e posto al centro della sua pedagogia scientifica»3.