Un paese che ignora il proprio ieri non può avere un domani.
Indro Montanelli
Innanzitutto vorrei ringraziare tutti i presenti per essere qui in una giornata così difficile dal punto di vista
climatico e soprattutto vorrei ringraziare L’Associazione Montessori di Brescia per un invito che mi onora.
La mia gratitudine va poi a Rosa Giudetti che, programmando la giornata di lavoro, ha tenuto conto della difficile situazione in cui mi trovo.
Per la stessa ragione mi giustifico con voi e vi chiedo scusa se non mi fermerò al pomeriggio. Un familiare molto malato mi costringe a tornare a casa
il più presto possibile. Vi prego di tener conto di questo. Grazie infine per aver posto, come illustrazione di questo importantissimo convegno, la
copertina del mio libro Una bambina senza stella, Rizzoli Milano, di cui questa mattina vorrei leggere alcuni stralci, poche pagine, non temete.
Quanto ai contenuti affrontati, considero molto opportuna la presentazione dell’argomento “resilienza” e particolarmente interessante l’accostamento fra
resistenza e resilienza.
Secondo me le due modalità di reagire alla frustrazione possono essere compatibili, possono coesistere. Non necessariamente dobbiamo pensarle come due
poli opposti e oppositivi. Si può essere al tempo stesso resistenti e resilienti. La resistenza è un’attività di cui sono particolarmente capaci le
donne in quanto per secoli, racchiuse nella casa e nella famiglia, più che la resilienza hanno esercitato la virtù della resistenza. E sarà appunto con
la storia di una bambina resistente ai traumi della vita che cercherò di dimostrare questa tesi, ricordando che il dolore dei bambini non cade mai in
prescrizione.
Tornando ora alla resilienza, vorrei osservare che non si tratta, come spesso si crede, di un ripristino della situazione precedente. Non si torna mai
psicologicamente alla condizione che si era abbandonata perché ogni dinamica ci trasforma. Ogni passo avanti, il fatto stesso di compiere una evoluzione
psicofisica, comporta sempre una modificazione radicale: dopo ogni evento non saremo mai più quelli di prima. Forse i metalli possono tornare a essere
quello che erano, le persone no. Per noi è sempre possibile un cambiamento, e si spera sia un cambiamento positivo. Questa disponibilità fa sì che
l’educazione possa condurre a quella che Fulvio Scaparro chiama nel suo ultimo libro La bella stagione.
Ciò che vogliamo raggiungere con il metodo montessoriano è una bella stagione della vita. Ma anche qualche cosa di più. Montessori non è soltanto una
pedagogista, è anche una grande utopista, è una filosofa che propone un mondo nuovo, un uomo nuovo. Siamo nei primi anni del novecento, epoca delle
grandi utopie sociali e di grandi sogni di cambiamento. L’“uomo nuovo” era propugnato da tutti i totalitarismi: dal fascismo, dal nazismo, e dal
comunismo. Ma l’uomo nuovo auspicato da Maria Montessori ha qualcosa di diverso dagli altri. Il fatto che, per lei, non vi sia un potere politico che
decide come deve essere l’uomo nuovo è determinante. La promessa di cambiamento sta nei bambini, nelle nuove generazioni, non nelle precedenti.
Maria Montessori, da vera pedagogista, si piega pertanto sul bambino, lo osserva, lo ascolta, convinta che in ogni bambino esista in germe un uomo
nuovo, portatore di un mondo nuovo. Nel bambino in atto, nel non-adulto che ha di fronte, scorge l’uomo in potenza, l’adulto responsabile e competente
che, se ben accompagnato, potrà diventare. Porre al primo posto il bambino, come propone Maria Montessori, non vuol dire soltanto collocarlo al centro
dell’attività didattica ma significa molto di più: vuol dire porlo al centro del mondo, al centro della società, al centro dei suoi ideali. Progettare
una politica a misura di bambino vuol dire pensare una politica aperta al futuro e valida per tutti. Ma, per ottenere uno sguardo così vasto e profondo
occorre essere capaci di ricordare il passato, di tornare indietro per prendere la rincorsa e saltare più avanti e più in là. Il senso storico è
indispensabile per progettare un futuro possibile e desiderabile. Chi non sa da dove viene non sa come procedere.
Conoscere da dove veniamo ci aiuta per sapere dove vogliamo andare. Dedico pertanto il mio discorso, che spero stia nei tempi, a Maria Montessori, alla
sua vita di cittadina del mondo, al suo amore mai sdolcinato, un amore vero, un amore al tempo stesso razionale e passionale per i bambini. In
particolare vorrei concentrarmi sulla frase che il bambino rivolge all’adulto “aiutami a fare da solo”. Una frase sempre citata ma, di questi tempi,
sempre più elusa.
In realtà le famiglie, che amano più che mai i loro figli (ma anche l’amore può essere troppo) si mostrano molto insistenti nel provvedere, nel seguire,
nell’evitare ai bambini di fare da sé.
“Fare da sé” comporta inevitabilmente di affrontare qualche rischio e, nell’epoca delle Assicurazioni, le giovani famiglie sono incapaci di ammettere
che i bambini, per divenire autonomi e indipendenti, devono poter correre qualche rischio.
Come sono solita affermare, questa è la prima generazione che non conosce le ginocchia sbucciate. Per evitare che si facciano male si proibisce ai
bambini e ai ragazzi di saltare un ostacolo, di guadare un fosso, di salire su un albero, di allontanarsi da casa anche di poco per mangiare un gelato o
andare a trovare un amico. Non vanno più a scuola da soli neppure quando sarebbe possibile, come nei piccoli centri.
In realtà, basterebbe qualche avvertenza: la presenza di nonni come volontari, un percorso facilitato, il controllo di qualche vigile urbano. In realtà,
meno bambini circolano sulle strade più le strade diventano pericolose. Un fiume di scolaretti che camminano sui marciapiedi costituisce già una
garanzia di sicurezza.
Ma abbiamo paura, non riusciamo a superare l’ansia che i bambini siano messi in pericolo. Ma senza rischi non si cresce, affrontare qualche impervietà
della vita è necessario altrimenti non si producono gli anticorpi contro i traumi che, grandi o piccoli non mancano mai. Il compito di valutare il
limite sta ai genitori, che spesso chiedono “ma qual è il giusto rischio?”. Il giusto rischio va commisurato su ogni bambino: dev’essere un rischio
ragionevole tenuto conto delle sue possibilità. Deve essere un rischio che minimizza le eventualità negative e, per quanto possibile, incrementa gli
aspetti positivi: la fiducia, l’iniziativa, la resistenza, la resilienza e la creatività.
Il bambino che non ha mai messo alla prova il suo corpo per superare un ostacolo, che non si è mai risollevato dopo essere inciampato, non si conosce.
Non osa tentare perché non è consapevole delle sue possibilità e tanto meno delle sue potenzialità.
Saper calcolare le probabilità d’insuccesso ogni volta che si affronta un compito nuovo, ammettere di poter errare per ritentare è la condizione
necessaria per l’emergere del pensiero creativo.
Uno dei maggiori contributi della pedagogia e della didattica montessoriana è proprio essere attente, non alla ripetizione, non al saper ripetere una
lezione, ma a comprendere il meccanismo del ragionamento e trovare qual’è il senso di quello che si sta facendo.
Vorrei osservare che il mondo sta cambiando, e rapidamente. Ma nessuna innovazione è per sempre, ferme restando le basi. Tornando alle radici storiche
dell’insegnamento montessoriano, bisogna avere il coraggio di sottoporle alle sfide che il nostro mondo ci pone. Giustamente si parlava prima di
robotica, d’intelligenza artificiale, ma sono tante le sfide che il terzo millennio ci invia.
Per esempio le sfide del cosmopolitismo, dell’accoglienza, dell’altro, della convivenza, della declinazione della diversità nell’eguaglianza.
Quello che Montessori chiamava il “mondo nuovo” è un mondo che si rinnova continuamente. Non si tratta di accettare l’insegnamento montessoriano come un
testo sacro ma di sottoporlo costantemente, fermo restando le sue fondamenta, alle domande del presente. L’inverno scorso si poteva leggere sul muro
della metropolitana milanese: “non c’è più il futuro di una volta”. E una scritta successiva diceva: “toglieteci tutto ma non il futuro”.
Ecco, come dicevo, un altro grande pregio della pedagogia montessoriana è di essere aperta al futuro. Il bambino cui Maria si rivolge non è quello della
pedagogia tradizionale, un soggetto da definire con il segno meno: non ancora adulto, non ancora maturo, non abile, non acculturato. È piuttosto un
bocciolo, un germe, un sistema di potenzialità concentrate che si tratta solo di aiutare a esprimersi. Si devono riconoscere, sostenere e incrementare
le potenzialità del bambino, ma è lui che ne detiene le chiavi della sua vita, è lui il protagonista della sua storia.
In questi anni i bambini sono pochi, molto desiderati, circondati da molti adulti affettuosi che non soltanto li proteggono ma li amano.
È questa una delle generazioni più amate, una delle più belle. Se guardate i bambini che ci circondano, vedrete che sono bellissimi. In maggioranza
mangiano sano, vivono in abitazioni salubri, vestono adeguatamente ed esercitano varie attività sportive.
Sono bambini che crescono bene ma che, troppe volte, non vivono secondo le esigenze della loro età.
Gli adulti decidono tutto per loro: il tempo della scuola e il cosiddetto “tempo libero”, che meno libero non potrebbe essere.
Per proteggerli li abbiamo chiusi in una gabbia d’oro. Ma pur sempre una gabbia!
Come scrive Maria Montessori: “…l’adulto vuole sempre aiutare il bambino, credendolo incapace di fare da sé. Non è vero.” (Daniela Scandurra
Un’altra educazione è possibile, Publistampa Edizioni, Pergine, 2017, p. 63) Dobbiamo invece aiutare i bambini a vivere gli spazi di libertà loro
concessi, che sono progressivi. Un bambino di due anni non avrà la stessa libertà di un bambino di 7/8 anni. Ma man mano dobbiamo aiutarli a diventare
adulti consegnando loro il senso delle lo scelte e la direzione del loro futuro, senza omologarli in base a presunte richieste della società.
Troppe volte, quando i figli diventano adolescenti, i genitori, per lo più la mamma, decidono la scuola gli amici, i giochi, i viaggi, lo sport… persino
la morosa o il moroso, senza lasciargli margini di autonomia. Invece i ragazzi hanno bisogno per crescere, per diventare adulti, di scegliere, anche se
ogni decisione comporta, come conseguenza, di poter sbagliare.
Dobbiamo ammettere che non è così semplice essere liberi, che la libertà fa paura e che talora, come mostra nella storia il consenso del popolo alle
dittature, sembra più comodo delegare ad altri ogni responsabilità.
Però solo accettando e valorizzando la libertà si cresce umani: scegliendo e pagando le responsabilità e le conseguenze delle proprie scelte.
Ora invece i nostri bambini sono guardati a vista e telecomandati come piccoli robot.
Quando vanno in piscina, ad esempio, l’allenatore dice loro che movimenti fare, come devono respirare, quale obiettivo devono raggiungere. Non è
prevista alcuna autonomia. In realtà, come dicevo, per conoscersi bisogna sentirsi liberi di affrontare la propria vita ma noi adulti abbiamo poca
fiducia nei bambini, nelle loro risorse. Quello che, nella mia esperienza di psicoterapeuta, trovo carente è proprio la fiducia dei genitori nella
capacità dei figli, nelle loro possibilità, nei loro talenti. Quante volte si sente dire in spiaggia dalle mamme: “adesso vi salutiamo perché andiamo a
fare i compiti”. Ma chi deve svolgere i compiti delle vacanze? Non certo le mamme.
Non solo i figli vengono seguiti passo passo, ma spesso addirittura sostituiti. Conoscerete senz’altro, magari per sentito dire, il genitore che litiga
con l’allenatore perché ha lasciato il figlio in panchina, quello che prende a sberle l’insegnante perché secondo lui non ha dato al ragazzino i voti
che avrebbe meritato.
Introdursi nelle scarpe dei propri figli, camminare al posto loro, non fa che confermare la scarsa fiducia nei più giovani.
Per questo vorrei portare qui oggi la testimonianza che ho raccolto nel libro Una bambina senza stella.
La narrazione si svolge in terza persona ma racconta le vicende della mia infanzia. Non ho voluto usare la prima persona singolare per evitare, per
quanto possibile, il rischio di ogni autobiografia: il narcisismo e l’egocentrismo.
Anche se racconto di me, delle mie esperienze di bambina, credo che il discorso riguardi tutti nella misura in cui al di là delle vicende, delle storie,
degli eventi e dei fatti contingenti, i sentimenti e le emozioni sono sempre i medesimi.
La curiosità, la vitalità, la voglia (come afferma l’ultimo libro di Charmet) di essere amati e ammirati, sono comuni a tutti anche nel variare dei
tempi e dei luoghi per cui la disattenzione provoca una grave, anche se invisibile, frustrazione.
Questo libro è composto di flash della memoria perché nessuno ha tramandato il racconto di ciò che mi è accaduto nei miei primi anni.
Sono nata nel 1938, 80 anni fa, proprio quando in Italia venivano approvate leggi razziali contro gli ebrei.
E quest’anno è dedicato al ricordo di quegli eventi, di una persecuzione senza precedenti, che ha provocato 6 milioni di morti nei campi di sterminio
nazisti.
A questo punto vorrei fare una parentesi per sottolineare che Maria Montessori non è mai stata complice di questi crimini. Inizialmente, nel 1926,
utilizza l’appoggio di Mussolini per promuovere corsi di formazione per insegnanti e aprire nuove scuole. Ma, come scrivono Laura Beltrami e Lorella
Boccalini, la sintonia con Mussolini non è destinata a durare: “Con il delitto Matteotti il governo svela il suo vero volto: il Duce non può controllare
i piccoli che crescono nelle Case dei Bambini come persone rispettate, pensanti, autonome, e Montessori non è disposta ad accettare l’intromissione del
regime nella sua proposta didattica…”
Nel 1934 arriva l’ordine di chiudere tutte le scuole montessoriane in Italia, Hitler poco dopo fa lo stesso con Germania e Austria.” (Il metodo montessori per tutti, Rizzoli, Milano 2017, pp. 31-2).
Chiusa questa digressione, vorrei tornare alla Bambina senza stella. La mia storia, come vedrete, è un po’ particolare in quanto mi trovo ad
essere figlia di padre ebreo di una madre cattolica di origine tedesca. Non poteva esserci una situazione più conflittuale! Mio padre si chiamava Finzi
e apparteneva, seppure non credente, alla comunità ebraica di Mantova. Ricordate il romanzo Il giardino dei Finzi Contini di Bassani e il film
omonimo? Quei fatti si svolgono a Ferrara ma le due famiglie erano apparentate.
Mia madre Alexandra Rukinger, era invece cattolica.
Come figli, io e mio fratello, ci trovavamo quindi nella condizione intermedia di quelli che saranno chiamati dal 1943: i “mezzosangue”. Cittadini che
non saranno perseguitati nella prima fase delle persecuzioni razziali, quando le Leggi antisemite volevano ottenere l’emarginazione, l’isolamento degli
ebrei, che venivano appunto espulsi dalle scuole pubbliche, dai posti di lavoro statali, dalle università, allontanati dall’insegnamento, privati di
mezzi di comunicazione come la radio.
Ma con l’avvento della Repubblica Sociale Italiana, tutto cambia e l’espulsione si tramuta in una vera e propria persecuzione, finalizzata allo
sterminio.
Inizia così una caccia agli ebrei che comprende anche i cosiddetti “mezzosangue”.
Di questa orribile definizione, di cui non sapevo niente, sarei stata, dai cinque anni di età, una vittima innocente.
Vorrei far notare, a questo punto, che esiste una sola e unica razza: quella umana.
Nel mio caso l’ebraismo, cui non ho mai partecipato, ha rappresentato soltanto una assurda imputazione.
Nata a Brescia a pochi passi dal Duomo, cresciuta in modo cattolico, battezzata, iscritta all’asilo delle suore orsoline, non potevo comprendere perché
venivo, dapprima controllata, e poi ricercata per il solo fatto che mio padre si chiamava Finzi. Quando nasco, nell’ottobre del ’38, i miei genitori già
vivevano da due anni in Africa, in piena era fascista. Risedevano ad Addis Abeba, in Etiopia, allora denominata Abissinia, dove erano emigrati per
trovare lavoro. A mio padre, ingegnere, era stata affidata la costruzione delle linee telegrafiche della catena montuosa del Gimma.
Nell’estate del 38 i miei genitori erano rientrati in Italia per mettermi al mondo, con l’idea di ripartire poi subito per l’Africa. Ma le leggi
razziali costringono mio padre a ripartire immediatamente per timore che gli venga sequestrato il passaporto e cancellato il posto di lavoro.
Si trattava, in quegli anni, di affrontare un viaggio in nave lungo e periglioso, proibitivo per una neonata.
Poco dopo mia madre, incalzata dagli eventi, decide di seguirlo con mio fratello, mentre io rimango in Italia e, all’età di 20 giorni, affidata a una
balia in un paesino del mantovano, Villimpenta.
Dopo sei mesi la balia, non ricevendo altri compensi tranne l’anticipo, non sa più dove mettermi.
Vengo così affidata ad alcuni lontani parenti di mio padre, due anziani fratelli che vivono da sempre nella casa di famiglia.
Il maggiore, vedovo, padre di due figlie adolescenti, lavora come falegname. Ma, poiché le ragazze studiano in città, vengo affidata al fratello
contadino e a sua moglie.
Nella prima infanzia parlo solo in dialetto mantovano e, non conoscendo né mamma né papà, crescerò come Qui Quo Qua, i nipoti di Paperino, in un mondo
di zii.
Questa condizione, secondo la psicologia e la pedagogia tradizionali, avrebbe dovuto costituire una carenza che avrebbe condizionato tutta la vita di un
bambino abbandonato.
Una privazione del genere avrebbe dovuto indurre una personalità deprivata, un disturbo evolutivo, l’incapacità di essere felice.
In realtà le cose non sono andate così perché, come sostiene Maria Montessori, i bambini hanno delle risorse che inizialmente non conosciamo ma che
dobbiamo supporre.
Non che abbia raggiunto grandi successi, ma ho potuto vivere una vita soddisfacente, ricca di affetti e di riconoscimenti, confidando nelle capacità di
resistenza e resilienza.
Ed è proprio in nome della resilienza che porto qui, a voi, la mia testimonianza. È possibile quindi sopravvivere al dolore, superare l’abbandono,
riconoscersi e sostenersi da soli. Non dirò come si fa, non ci sono ricette perché ognuno trova le risorse in se stesso, nella sua storia, affidandosi
alle persone valide che incontra lungo il corso della sua vita.
Intendo affermare soltanto che, in psicologia, non vi è un legame necessario tra causa ed effetto, che esistono margini di libertà per sottrarsi al
proprio destino grazie alla resistenza e alla resilienza.
Inizio allora dai ricordi di quella strana infanzia tra le risaie, quando, come ogni bambino, non sapevo di essere un bambino.
Nell’aurora della vita, il nuovo nato si sente tutt’uno col mondo circostante, in una fluida indistinzione tra il dentro e il fuori.
Da questa rievocazione si capisce subito come sia significativo il valore che Maria Montessori (che io sappia l’unica tra i pedagogisti storici)
attribuisce all’ambiente in cui il bambino si sviluppa.
Considerare rilevanti le condizioni ambientali induce a osservare, oltre la personalità del bambino e il rapporto docente allievo, anche il contesto
sociale e familiare in cui ognuno cresce.
Tornando alle risaie di Villimpenta, “la bambina”, come è normale, non ricorda nulla dei primi tempi della sua vita. Ma, contrariamente a quanto accade
di solito, non può sopperire all’amnesia infantile con racconti di famiglia. Solo molti anni dopo sarà in grado di racimolare poche informazioni su
avvenimenti che pure le appartengono. Ma l’oblio non colpisce solo lei, tra le terribili distruzioni provocate dall’ultima guerra vi è anche quella
della memoria.
Soggetta a un duplice silenzio, collettivo e privato, la storia della bambina non trova un inizio. Prima non c’era, poi c’è. E in mezzo si apre un vuoto
che può essere soltanto sommariamente ricostruito.
La nostra preistoria, quando l’io non era ancora Io, è una evocazione indotta, un discorso altrui che abbiamo fatto nostro. Come dice Lacan: “siamo
dapprima parlati e solo successivamente diveniamo parlanti”.
Tuttavia qualche traccia di quel passato remoto rimane nella memoria profonda, quella corporea: sensazioni, figure, lampi, reazioni e tensioni che,
sebbene non evocabili intenzionalmente, possono ricomparire nei dormiveglia.
In quella zona crepuscolare intermedia tra il sonno e il risveglio in cui la mente libera, dai pensieri del giorno, fluttua lasciando venire a galla
ricordi che non sapevamo di avere.
La bambina trova nelle prime sensazioni il senso di esserci, di essere nel mondo.
“È con meraviglia che la bambina si apre alla realtà circostante, il sé riflessivo non è ancora sbucciato, e come scrive Peter Handke “il mio passato:
quando è stato bello rammento la situazione; quando è stato brutto, rammento me stesso.”
Forse ricorda più degli altri perché il suo passato non è stato tragico ma neppure facile e soprattutto segnato, come vedremo, da un repentino abbandono
del suo mondo, della sua casa. “ Mentre all’alba della vita le immagini sfilano sulla superficie dello sguardo, poco per volta vengono inscritte in
sequenze narrative che le connettono conferendo loro senso e valore”.
Mentre il bambino pensa dapprima utilizzando sequenze percettive, comincia poi progressivamente a narrarsi. E Guardate che la vita non è tanto quella
che abbiamo vissuto, quanto quella che ci siamo raccontata.
La continuità del nostro io è data dall’io narrante, dalla capacità di tradurre l’esistenza in parola.
“La bambina sente di essere nel mondo, nel suo mondo e che nulla di quanto sta vivendo viene perduto: permangono i lenti rintocchi delle ore, le risaie
che riflettono il passaggio delle nubi, il sapore del riso, il profumo del mosto, l’inebriante stordimento delle pere che fermentano nell’erba, il
fruscio della barca che scivola lungo il fosso mentre il remo lentamente pettina i fili d’erba che dondolano sul fondo. “Io sono il mondo, e il mondo” e
pensa con un senso di profonda appartenenza. Solo più tardi il dolore della separazione la condannerà come tutti all’esilio.”
Vi è sempre, in ogni biografia, il momento della separazione. In un certo senso la nostra vita è fatta di separazioni: la nascita, la scuola, il lavoro,
il matrimonio e via via sino all’uscita di scena della generazione precedente.
Quando, nel ’43 la madre ritorna, rimpatriata dall’Africa con le cosiddette “navi bianche” organizzate dalla Croce Rossa per riportare in Italia le
donne e i bambini che vivevano nelle colonie, ora occupate dagli inglesi, la bambina si trova di fronte una madre mai vista.
Ormai ha quasi cinque anni e non sa che il suo mondo sarà perduto per sempre, che i suoi affetti le verranno sottratti, che nulla sarà più come prima.
Ma sono proprio i traumi che ci fanno rifugiare in noi stessi, che ci fanno attivare il mondo interno.
“In quel paradiso terrestre era cresciuta piano piano, provando un sentimento di gratitudine ampio e avvolgente, che Mario Luzi, uno dei più grandi
poeti italiani, esprime con l’immediatezza di una preghiera. “Sia grazia essere qui, nel giusto della vita, nell’opera del mondo. Sia così.”
Ecco il senso del sacro che i bambini provano di fronte alla natura, all’immersione nella natura, nel mondo inanimato. Più tardi le esperienze si
traducono in parole, in discorsi che spezzano l’unità precedente aprendo un divario tra l’Io e la realtà circostante, tra il presente e il
passato.
Leggo ora un altro brano del libro La vita interrotta. Siamo nell’agosto del 1943 e la madre, appena sbarcata, giunge a riprendersi la bambina
abbandonata.
“Seduta accanto alla porta di casa, La bambina attende che, dopo quattro anni e mezzo, la mamma e il fratello vengano a riprenderla. Accudita da vecchi
bonari parenti non è mai sentito la mancanza. Sapeva che i suoi genitori erano in Africa ma non dov’è l’Africa. Nessuno le ha mai fatto osservare
l’anomalia della sua situazione e lei non ci pensa neppure adesso che tutto sta per cambiare. Colta da una leggera sonnolenza, si ridesta quando scorge
avvicinarsi due figure a lei sconosciute. La prima, una signora con alti tacchi di sughero, la bocca vermiglia e lo sguardo puntato contro il mondo,
prosegue a passi decisi mentre il figlio pallido e magro la segue riluttante.
Entrambi guardano con disappunto la bambina spaventata e, dopo qualche ora di generici convenevoli, si accingono a ripartire portandola con loro. Ma,
inaspettatamente, la più battagliera delle giovani si oppone a tanta fretta: la piccola non è un pacco! Occorre darle un po’ di tempo prima di portarla
via. Lasciate che si abitui a voi poco per volta!” Dopo tre giorni trascorsi nel contenzioso sul rimborso delle spese, durante il quale nessuno si
accorge di lei, la bambina ritrovata lascia la casa dove è sempre vissuta seguendo a piccoli passi la valigia, la mamma e il fratello corrucciato, parte
per Brescia la città dov’è nata.”
In quegli anni di guerra, Brescia è una città martoriata, sottoposta a bombardamenti furibondi essendo un nodo ferroviario molto importante e sede di
importanti fabbriche di armi. Una città invivibile: suonava continuamente l’allarme e bisognava rifugiarsi nelle apposite cantine, allestite come rifugi
per la popolazione. Ma prima di arrivare alle cantine volevo soffermarmi sul dolore della bambina che si sente rapita. “Di giorno riesce a non pensare
(vive a casa della sorella della madre, di suo marito e delle cuginette), tutto la sorprende. Ma la notte supplica gli zii di Villimpenta di venirla a
prendere. Immagina l’incontro alla stazione, i baci, gli abbracci, le lacrime, Ma nessuno si fa vivo e piano piano rinuncia ad aspettare. Intanto la
vita procede come niente fosse, ignorandola. Anche senza esserne consapevole, si sente un ospite non richiesto e teme che ad un abbandono ne segua un
altro.”
Ecco questo è spesso il sentimento dei bambini che si sentono abbandonati da un genitore: temono che, dopo il primo, anche l’altro se ne vada.
“Che cosa potrebbe fare se restasse sola al mondo come la Piccola Fiammiferaia? Travolta da eventi che sfuggono alla sua comprensione, logorata da un
dolore stanco, la bambina intuisce che se vuol resistere alla disperazione deve chiamare a raccolta ogni risorsa e concentrarla su di sé. Per
esorcizzare l’incubo incombente si concentra sui “bilin”, i giocattolini che ha portato da Villimpenta. Fa brillare l’acciarino, suonare il carillon,
ruotare il caleidoscopio sino a smarrirsi in una nostalgia crepuscolare. Sfoglia e risfoglia i libri più noti, salvo quello orribile che le hanno appena
regalato: la storia di una gallina. Come accade a un arbusto che per non franare si aggrappa alle radici, la virtù della resistenza sarà il suo modo di
farcela, secondo il motto ormai proverbiale: “io, speriamo che me la cavo”.
Nell’impresa può far tesoro di una preziosa eredità: la capacità di non cedere, acquisita dal genere femminile in secoli di sottomissione.”
Vedete qui come il bambino può agire su di sé in condizioni anche molto difficili divenendo autoplastico, agendo su di sé. Non può modificare la
situazione : non gli è concesso modificare la situazione che sta vivendo. Ci può tentare, ma la maggior parte delle possibilità consistono nel plasmare
sé stesso, nell’adattarsi, nel prepararsi non solo alla resistenza ma alla resilienza.
Un altro brano: L’amore di tutti e di nessuno.
“Oppressa dal coprifuoco, la città si ridesta di soprassalto quando l’urlo delle sirene ordina di raggiungere il rifugio più vicino. Varcato il portone,
fioche lampadine rischiarano le ripide scale che conducono a un susseguirsi di cantine fredde e buie, circondate da rudimentali panche di legno.” Erano
le cantine dell’attuale scuola media Romanino, non so se funziona ancora come tale.
“Dalle pareti impregnate di umidità si diffonde, misto al respiro affannoso dei fuggiaschi, un aspro odore di salnitro. Mentre il rombo degli aerei e le
raffiche delle compagnie contraeree fanno sussultare il cielo sulla città, dall’ombra si levano lente e perentorie le invocazioni del rosario recitato,
in latinorum da un coro di donne avvolte in scialli neri.
Ultimi arrivati, la mamma, la bambina e il fratello siedono sulla panca più vicina alla scala e ben presto, colti dal gelo e dalla paura, madre e figlio
si assopiscono abbracciati. Da quel gesto, reso consueto dal lungo periglioso viaggio appena condiviso, la bambina resta inesorabilmente esclusa. Per
lei non c’è posto. Per sfuggire al morso dell’invidia gelosa e all’umiliazione dell’autocompatimento (guardate che i bambini sono molto orgogliosi)
affida alla vitalità delle sue gambette un’esibizione che chiede attenzione, comprensione. Inoltrandosi nel tunnel delle stanze buie prende a saltare
come una capra zoppa, nel tentativo di strappare agli astanti uno sguardo, un sorriso, un cenno di benevolenza. Se non la ama nessuno la ameranno tutti.
Peccato che ben presto la vita si incaricherà di smentire quell’ingenua illusione.”
I bambini privi di attenzione dagli adulti imparano ben presto a contare sulle proprie risorse. E a essere riconoscenti per il poco o per il tanto che
ricevono dagli altri. Non hanno bisogno che venga loro ordinato: “di’ grazie”. Lo fanno da soli. Spesso proviamo questa disposizione d’animo negli
attori che, esponendosi al pubblico, ricercandone i favori, placano con la grazia degli applausi il timore di non essere nessuno.”
Timore che provano anche i bambini, cosiddetti, iperattivi che cercano con movimenti inopportuni di richiamare l’attenzione degli adulti, la loro
ammirazione.
“La motricità non ha una funzione solo esecutiva, Il bambino attraverso il movimento esprime le sue emozioni, i suoi pensieri, le sue immagini interne
profonde, in rapporto col mondo circostante” (Daniela Scandurra, opera cit. p.37) Non c’è niente di più penoso, di più umiliante che sentirsi ignorati
dagli altri.
Leggerò ora un successivo ricordo, intitolato “Bella bambina ariana”.
“Mentre il treno corre sferragliando verso Manerbio, l’ufficiale nazista, accarezzando la bambina bionda che gli siede dinnanzi, commenta rivolto alla
mamma: “Bella bambina ariana”. E poi chinandosi sulla piccola: “Come ti chiami?”. E lei indicando col mento la mamma risponde: “dice che mi chiamo
Antonia Bianchi”. Miracolosamente fedele alla consegna, quella che era soprannominata mademoiselle le gaffe, pronuncia per la prima volta un nome e un
cognome che non le appartengono. Una maschera imposta dalle nuove norme emanate dalla Repubblica di Salò contro gli ebrei compresi, come dicevo, i
“mezzosangue”, figli come lei e il fratello di padre ebreo e di madre ariana. E mentre ascolta la sua voce, si sente ancora una volta espropriata di una
identità mai consolidata.” Pensate come sono importanti i cognomi. I cognomi rappresentano la nostra posizione nella storia, il nostro passato, i
condizionamenti che abbiamo ricevuto per il fatto di essere nati in quella famiglia, in quell’epoca, in quel luogo. Il nome invece (quando non è imposto
dalla tradizione) rappresenta i sentimenti, la fantasia, la proiezione affettuosa dei nostri genitori. Quanto a me, il nome “Silvia” si riferiva alla
nota poesia di Leopardi, proprio quella dedicata al ricordo, alle rimembranze: “Silvia ricordi ancora…”, un’attività che, come vedete, mi è
congeniale.
Se vi ho letto la testimonianza di una vicenda infantile particolarmente difficile e dolorosa è per indurvi ad avere più fiducia nei vostri figli, nei
vostri allievi, di confidare nei loro talenti, nello loro potenzialità, nelle loro capacità di resistenza e resilienza.
Stiamo attraversando la crisi di un’epoca, dove l’oggi è incerto e il domani oscuro. La tentazione di spronare i ragazzi alla competizione nel tentativo
di emergere, di riuscire ad avere successo nonostante tutto e tutti, è forte.
Ma, per definizione, il successo è di pochi. Non si tratta di essere il migliore ma di diventare migliore.
Per superare davvero una crisi che non sembra finire dobbiamo aiutare le ultime generazioni a pensare in termini di “noi”, non di “io” e in questo senso
la Scuola montessoriana è un’ottima palestra.
Devono essere capaci di coniugare continuità e cambiamento, tradizione e innovazione. Di dire sì ma anche no, quando è il caso.
Uscire dallo sconforto del presente progettando un mondo migliore non per sé ma per tutti è il compito che la storia gli pone.
E la filosofia universalistica che Maria Montessori ha elaborato è proprio l’etica che andiamo cercando e che, sorretta dalla prassi, può aiutare la
Scuola a uscire dalla stagnazione in cui si trova. I ragazzi non hanno bisogno di sapere di più ma di apprendere meglio e di trovare chi ascolti il loro
anelito a una buona vita, dove ogni azione, anche la più quotidiana, trovi senso e valore.