La “Metapediatria” di Janusz Korczak
Non è facile definire Janusz Korczak: fu pediatra, educatore, psicologo, sociologo, umanista, scrittore e tanto
altro. Tutte queste identità multiple le incarnò e le sviluppò mantenendole strettamente collegate e interdipendenti le une con le altre. In base alla
lettura dei suoi scritti e alle notizie che abbiamo sulla sua attività, riteniamo che la complessità di K. debba essere valutata globalmente; non è
pertanto opportuno indagare le sue competenze pediatriche senza considerare anche quelle pedagogiche e psicologiche.
Con questo intervento mi propongo di analizzare le idee e le intuizioni medico-scientifiche che K. ha sviluppato in 30 anni di attività a contatto con i
bambini nella prima metà del ’900. Come per la pedagogia, anche per la pratica pediatrica K. fu profetico e in grande anticipo sui tempi; oggi possiamo
affermare che, a distanza di quasi un secolo, la sua visione olistica del bambino si sta lentamente realizzando. Il termine “metapediatria” del
titolo vuole significare che, nella visione di K., la cura del bambino non riguarda semplicemente le sue malattie e l’igiene del corpo, ma deve
comprendere anche i suoi aspetti emotivi, ambientali e relazionali. Con la sua particolare esperienza di vita K. ha incarnato perfettamente questa
visione multiprofessionale e multidisciplinare della professione, capace di tenere assieme i pezzi del bambino e di considerarlo nella sua globalità e
complessità. Attualmente è opinione diffusa che un buon processo di cura, anche per gravi malattie (ad esempio quelle oncologiche o quelle
malformative), debba coinvolgere e potenziare la parte sana del soggetto, comprendendo anche il microambiente familiare e le relazioni significative con
adulti e coetanei.
Le intuizioni pediatriche di K. furono particolarmente originali e in controtendenza rispetto alle conoscenze scientifiche di allora. All’inizio del
secolo scorso non esistevano le neuroscienze e non erano disponibili le attuali conoscenze sulla vita prenatale e le competenze fetali, anche la
psicologia perinatale e del primo anno di vita si è sviluppata soltanto dopo diversi decenni. Possiamo allora chiederci come è stato possibile per K.
giungere a una tale conoscenza dello sviluppo fisico, cognitivo, emotivo e sociale del bambino. La domanda è difficile ma la risposta è piuttosto
facile: nasce tutto da una diretta e attenta osservazione del bambino, considerato nel suo abituale contesto di vita. Osservazione curiosa, amorosa e
libera da pregiudizi. K. infatti per 30 anni nella Casa dell’Orfano a Varsavia fu pediatra e padre adottivo di alcune centinaia di bambini e ragazzi,
osservati e curati nelle diverse fasi del loro sviluppo. Come pediatra li osservò e li studiò per aiutarli a crescere e come padre li amò, dedicando
loro la sua vita e, non dimentichiamolo, anche la sua morte. Ritengo che sia questa la chiave di lettura che può farci capire la unicità e la grandezza
di K.
Per comprendere le profetiche intuizioni pediatriche di K. è necessario partire dalle conoscenze scientifiche di fine ’800 e inizio ’900. K., dopo la
laurea nel 1905, frequentò le importanti scuole di pediatria di Berlino e Parigi. Studiò sicuramente sul trattato “Malattie dei Bambini” del prof.
Baginsky di Berlino, uscito nel 1882 e per alcuni decenni ristampato, aggiornato e tradotto in diverse lingue (anche in italiano). Dalla lettura di
questo autorevole manuale emerge una visione della pediatria limitata alle sole malattie e alle questioni di igiene (in quel periodo imperversavano
infezioni importanti, dalla tubercolosi alla sifilide, dal tifo al tetano neonatale). Nel voluminoso trattato mancano riferimenti espliciti alla vita di
relazione del bambino, alle sue competenze e possibilità regolative, agli effetti dell’ambiente sociale e del contesto di vita. Anche in altri trattati
importanti stampati nei decenni successivi (ad esempio quello italiano di Comba e di Jemma, rispettivamente direttori delle scuole pediatriche di
Firenze e Napoli, edito nel 1924), il bambino della prima infanzia viene presentato regolato da funzioni riflesse e comportamenti istintivi, di
derivazione quasi esclusivamente congenita ed ereditaria; mancano ancora riferimenti all’esperienza prenatale, alle competenze precoci, alla vita di
relazione, agli effetti dell’ambiente. Anche il manuale sull’alimentazione del neonato del 1947 del prof. Lust, direttore della famosa scuola di
puericultura di Bruxelles, mantiene la visione del lattante bisognoso di cure passive, eterodirette dall’adulto che lo accudisce, basate su schemi
predefiniti. Dobbiamo attendere gli anni ’60 per trovare accenni alla relazione madre-bambino e all’influenza dell’ambiente sulla crescita; ma è solo
negli anni ’70 e ’80 che si impone una visione veramente nuova (che potremmo definire korczakiana): al bambino si riconoscono finalmente
competenze individuali e si auspica una sua partecipazione attiva ai processi sociali e di cura che lo riguardano. Questa nuova ottica sugli aspetti
neurocomportamentali dello sviluppo infantile è attivata dall’italiano Milani Comparetti (fratello del famoso sacerdote), che operò a Firenze nel
dopoguerra, occupandosi prevalentemente di cura e riabilitazione di bambini con disabilità neuromotorie. Anche Milani, come K., deve le sue intuizioni
scientifiche ad una attenta e libera osservazione dei bambini nel loro contesto di vita. Dopo Milani fu la scuola di Boston del prof. Brazelton a
sviluppare ulteriori studi e conoscenze sullo sviluppo neurocomportamentale del bambino fin dal periodo prenatale, in questo caso potendo disporre del
nuovo materiale fornito dalle neuroscienze e dalle nuove strumentazioni tecnologiche.
Tornando al trattato di Baginky, contemporaneo di K., ritengo utile mettere a confronto il pensiero dei due studiosi relativamente ad un aspetto
particolare ma paradigmatico delle cure al bambino, cioè la modalità di allattamento materno. Il trattato tedesco indica come ottimale uno schema di
allattamento al seno con orario rigido, ogni 3 ore, per 6 poppate di 15-20 minuti ciascuna, e intervallo notturno di sospensione per fare riposare la
madre (se il bambino piange e reclama pazienza…); questo schema si manterrà per alcuni decenni ed è riportato anche nei manuali successivi, dove vengono
aggiunte le doppie pesate per misurare le quantità di latte introdotte dal bambino (nel 1920 si iniziano a proporre anche tabelle con le curve di
crescita). Teniamo presente che queste modalità di allattamento, così schematiche e rigide, non riguardano i neonati prematuri o con patologia, ma sono
riferite a lattanti fisiologici sani. Su questo tema K. nel suo “Come amare il bambino” del 1920 (ma iniziato nel 1914) scrive: “quante volte al giorno il bambino dovrebbe essere allattato? Da quattro a quindici. Quanto deve durare la poppata? Da quattro minuti a tre quarti
d’ora e più”. L’ironia è evidente e il contenuto del messaggio inequivocabile. Questa frase è perfettamente coerente con quanto oggi si insegna nei corsi
OMS/Unicef per formare gli operatori sanitari al sostegno dell’allattamento materno. K. prosegue con le sue osservazioni empiriche, e senza schemi e
pregiudizi afferma: “incontriamo seni facili e difficili, poveri o ricchi di nutrimento, con capezzoli buoni e meno buoni, resistenti e delicati. Incontriamo bambini che
poppano energicamente, discontinuamente e pigramente. Non esiste quindi una regola valida per tutti”. C’è un evidente rifiuto alla generalizzazione e una ricerca puntuale e consapevole della personalizzazione delle cure e del sostegno. “tutte le madri sono in grado di allattare, tutte hanno una quantità di latte sufficiente; solo la mancata conoscenza della tecnica di allattamento le
priva di questa innata capacità (…) L’allattamento, infatti, è la prosecuzione della gravidanza, allorché il bambino si è trasferito dall’interno
all’esterno, si è separato dalla placenta, ha afferrato il seno e beve non più rosso, ma bianco sangue. Beve sangue? Sì, sangue della madre, perché è
questa la legge della natura”. In questa ultima frase troviamo l’essenza del pensiero di K. sull’allattamento: non più e non soltanto una modalità di alimentazione, ma
un’esperienza relazionale profonda, con funzione costitutiva della nuova identità di mamma e bambino. È esplicito anche il pensiero che madre e figlio
sono dotati di competenze innate, in grado di guidare il loro comportamento e la loro ricerca di reciproco benessere. K. dimostra profonda fiducia nei
protagonisti della nascita e della crescita, sviluppando ante litteram gli attuali concetti di empowerment.
Anche sull’alimentazione complementare (erroneamente chiamata ‘svezzamento’) K. era in anticipo di molti decenni. Dall’inizio del ‘900 l’introduzione di
cibi diversi dal latte (prevista all’anno di età) ha visto una progressiva anticipazione, arrivando negli anni ’60 ai 3 mesi di vita; attualmente si è
tornati ai 6 mesi. Ma anche su questo K. aveva idee chiare e originali: “allorché al bambino non basti il latte delle poppate, occorrerà completare l’alimentazione gradualmente, aspettando sempre le reazioni del suo
organismo, dandogli di tutto, a seconda delle risposte del bambino stesso (…) Vale questo principio: il bambino deve mangiare quanto vuole, né più né
meno”. La capacità di autoregolarsi del lattante è ampiamente dimostrata e la sua partecipazione al pasto (non solo come cibo, ma anche come esperienza
sociale) è oggi caldeggiata e promossa dalla maggior parte dei pediatri. Questo principio vale anche nel caso di patologia, e ancora K. è profeta quando
scrive: “anche durante l’alimentazione forzata del bambino malato, il cambiamento di dieta può essere determinato soltanto con la sua partecipazione e la cura
deve essere condotta sotto il suo stesso controllo”. Che grande fiducia nel bambino, e che grande umiltà dell’esperto!
I trattati citati all’inizio non fanno menzione dello sviluppo prenatale del feto e delle sue esperienze precoci. Non ci stupiamo di questo; la
possibilità di studiare il feto con l’ecografia è degli anni ’80, altre strumentazioni più raffinate sono di questi ultimi decenni. K. però anche su
questo si dimostra attento, e probabilmente acquisì esperienza interrogando e ascoltando le donne in gravidanza. Il suo linguaggio è poetico, ma il
contenuto è perfettamente scientifico (anche se ai suoi contemporanei questi concetti saranno apparsi poco comprensibili): “dici: - il mio bambino -. Quando, se non durante la gravidanza, ne hai maggior diritto? Il battito del suo cuore, minuscolo come un nocciolo di
pesca, è eco del tuo. Il tuo respiro porta ossigeno anche a lui. Un unico sangue scorre in lui e in te, e neanche una delle sue rosse gocce potrebbe
dire di sapere se rimarrà tua o se diverrà sua (…) Il boccone di pane che stai masticando gli serve per formare le gambe sulle quali un giorno
correrà, la pelle che lo rivestirà, gli occhi con cui guarderà, il cervello in cui farà risplendere il pensiero, le mani che tenderà verso di te”.
Ogni madre è in grado di riconoscersi in questo quadro di relazione simbiotica profonda, ma per la scienza medica a cavallo del XX secolo la vita
prenatale rappresentava un buco nero o un semplice e automatico sviluppo biologico, privo di valenze e conseguenze per l’età futura.
Oltre alle questioni alimentari, l’altro grande problema che ancora oggi impegna l’accudimento nel primo anno di vita è la gestione del sonno. Da
diversi anni vediamo pubblicare nuovi libri e manuali che insegnano come far dormire un lattante e come gestire i numerosi risvegli. Alcuni di questi
libri sono stati grandi successi editoriali, anche se in alcuni casi hanno condizionato negativamente la relazione genitorifiglio consigliando
comportamento troppo rigidi e non responsivi. Su questo tema K. è lapidario, e senza tante parole va subito al punto: “costringere i bambini a dormire quando non ne hanno voglia è un delitto. La tabella che proclama quante ore di sonno sono necessarie al bambino è un
assurdo (…) Il bambino pensa con il sentimento, non con l’intelletto”. La motivazione finale è da considerare un grande aforisma e una perfetta chiave di lettura di tutta la prima infanzia; partendo da questo assunto,
ogni genitore può trovare facilmente e direttamente soluzioni e strategie per risolvere i grandi e piccoli problemi della crescita del figlio.
Un ulteriore ambito nel quale K. ha formulato pensieri e osservazioni di grande profondità e acutezza riguarda lo sviluppo neurocomportamentale del
bambino. Su questo i manuali dell’epoca non fornivano informazioni adeguate; molti aspetti psicologici dello sviluppo infantile hanno dovuto attendere
le ricerche di Piaget e di Vigotskij, consolidandosi e approfondendosi solo a seguito del grande lavoro di Donald Winnicott (pediatra e psicoanalista).
Ma K. per oltre tre decenni, vivendo assieme a tanti bambini, attraverso la sua empatia e sensibilità (basta leggere “Quando ridiventerò bambino” per rendersene conto), ha potuto disporre di un setting umano ed esistenziale unico e forse irripetibile. E così arriva all’acuta osservazione che
“soltanto una sconfinata ignoranza e superficialità dello sguardo possono negare l’evidenza che il lattante possiede una individualità ben precisa e
determinata, in cui confluiscono temperamento innato, energia, intelletto, senso di benessere ed esperienze vitali”; è utile sottolineare che questa frase non si riferisce al bambino in età scolare, ma al lattante del primo anno di vita. Nei manuali di pediatria
già citati, il bambino della prima infanzia è presentato come ‘tabula rasa’, regolato da funzioni riflesse. La visione di K. si spinge fino a riflettere
che: “oggi, forse fra poco, oltre che della vita vegetativa, potremo occuparci chiaramente della vita e dello sviluppo psichico del bambino nel primo anno
di vita. Ciò che è stato fatto finora non rappresenta che un inizio. Infinito è il numero dei problemi psicologici e delle conseguenze che stanno al
confine fra soma e psiche del lattante”. Il neonato/lattante come entità ‘psicosomatica’; è quanto ci dimostrano oggi gli studi di neuroscienze. Da questo deriva la grande importanza del
vissuto emozionale che si nutre della relazione con il caregiver, la necessità di una relazione equilibrata basata sulla prevedibilità del comportamento
dell’adulto, il pericolo dell’accudimento di un genitore troppo ansioso o depresso. K. è riuscito ad entrare così in profondità nell’anima e nella mente
del bambino da capire che questa fase della vita contiene chiavi di lettura essenziali per comprendere la natura umana e il senso dell’esistenza: “se vogliamo conoscere le forme primogenie dei pensieri, dei sentimenti e delle aspirazioni prima che si sviluppino, si differenzino e si definiscano,
dobbiamo rivolgerci a lui, al lattante”. Mi sembra che questa importante riflessione possa legarsi ad una analoga di Maria Montessori, che nel ‘Segreto dell’infanzia’ del 1933 scrive: “c’è un segreto nell’anima del bambino che non è possibile penetrare se egli stesso non ce lo rivela mano a mano che costruisce se stesso (…), è per
questo che solo il bambino può farci delle rivelazioni sul disegno naturale dell’uomo”. Il bambino ha già al suo interno le risposte per le questioni che lo riguardano, è sufficiente osservarlo con interesse, fiducia e amore,
consapevoli che sarà lui a ‘rivelarsi’ al momento opportuno.
Il prof. Brazelton di Boston ha messo a punto, alcuni anni fa, un importante metodo di valutazione comportamentale del neonato, rivoluzionando così
l’esame neurologico precedentemente utilizzato; con i suoi ultimi studi è giunto alla definizione dei Touchpoints, cioè di tappe di crescita
che il bambino manifesta nei primi anni, caratterizzate da ‘scatti evolutivi’ alternati a periodi di ‘regressione’, (situazioni che possono confondere i
genitori e provocare difficoltà nell’accudimento). Brazelton non poteva sapere che quasi un secolo prima di lui, un attento pediatra di Varsavia aveva
già ‘scoperto’ i Touchpoints, senza però attribuire loro un nome specifico: “accettare lo sviluppo dell’intelletto del lattante è oltremodo difficile perché egli impara molte volte e molte volte dimentica: è uno sviluppo a più
fasi, intervallato da pause e regressioni”.
Un ultimo particolare aspetto di attualità e di profezia di K. riguarda il business commerciale e l’influenza pericolosa del marketing legato
all’infanzia. Dal dopoguerra ad oggi questo tema rappresenta una importante criticità, e i danni provocati dalla commercializzazione e promozione dei
latti artificiali sono solo l’esempio più lampante. Ai tempi di K. la rilevanza di questo problema era sicuramente molto limitata rispetto a quanto
avviene oggi, ma il suo intuito ‘sociologico’ aveva fiutato il rischio e con la abituale ironia ci avvisa che “ogni opuscolo (di puericultura) in voga ricopia dai manuali quelle piccole verità valide per i bambini in generale, ma che diventano menzogne per il
tuo in particolare (…) Occorre distinguere la scienza della salute dal commercio col pretesto della salute”. Questo commento sembra davvero scritto oggi.
Oltre alla pedagogia e alla legislazione a tutela dei diritti del bambino, anche la pediatria deve riconoscere un grande debito ad un pediatra che,
anziché semplicemente curare i bambini, si è messo completamente al loro servizio, dando loro amore, attenzione, cure. K. ha anticipato di quasi un
secolo le conoscenze utili a sviluppare cure umane ed efficaci, a sostegno della genitorialità, aiutando i bambini a crescere in maniera armonica e
felice. Il messaggio di K. e la sua metodologia, che mescola affetto e osservazione scientifica, ha molto da dire alla pediatria di oggi, perché il
mondo nel frattempo è cambiato, ma il bambino resta lo stesso, sempre e ovunque.
“I bambini costituiscono una percentuale importante dell’umanità, delle sue genti, popoli e nazioni, in quanto abitanti, concittadini nostri, nostri
compagni di sempre. Sono stati, sono, saranno. Una vita tanto per ridere non esiste. No, l’infanzia sono lunghi e importanti anni nella vita di un
uomo”.