LA RISCOPERTA MODERNA

Lo straordinario successo di Giacomo Ceruti presso committenti e collezionisti a lui coevi dell’Italia del Nord è inversamente proporzionale alla sua fortuna critica.

Alessandro Morandotti

Assente dalla Storia pittorica dell’Italia del Lanzi, dove pure i pittori di “generi minori” compaiono in coda alle vicende dei grandi specialisti della pittura di storia sacra e profana, Ceruti è trascurato dalla storiografia ottocentesca, nonostante fosse stato intercettato, tra gli ultimi decenni del Settecento e i primi tempi del secolo successivo, da due grandi protagonisti della storia dell’Accademia di Brera, i segretari Carlo Bianconi (1732-1802) e Giuseppe Bossi (1777-1815).

Bossi venne incaricato di stilare l’elenco dei beni lasciati nel palazzo di Brera da Carlo Bianconi alla sua morte (1802) e tra le altre opere d’arte descritte in quell’occasione, con un’attenzione e un apprezzamento subito percepibili, troviamo «due altri [quadri] per il traverso, in uno de’ quali si vedono gambari cotti sì ben disegnati, e puliti dipinti, che il vero non è di quelli più vero, e naturale. Nell’altro sono frutta similissime a ciò che in natura vediamo. Opere del Ceruti»(10).

A questa ammirata annotazione, Bossi fa seguire l’acquisto dei due dipinti da parte dell’istituzione braidense. Elencati come esemplari autografi di Giacomo Ceruti nel catalogo delle opere conservate all’Accademia scritto da Bossi nel 1806 al momento dell’apertura pubblica della collezione, i due dipinti perdono presto la loro corretta identità attributiva, scivolando, tra le pagine dei cataloghi braidensi e le guide cittadine, nell’anonimato o nel corpus di un misterioso «Fabio Ceruti» di cui pure le fonti ci parlano. La difficoltà ad accettare l’assegnazione a Ceruti di quei dipinti durerà a lungo prima che il suo profilo di pittore di nature morte diventasse più chiaro.

Per seguire l’avvio davvero significativo della riscoperta di Ceruti, bisogna spostarsi da Milano a Brescia.

Nella città lombarda già sotto il dominio della Serenissima, dove Ceruti fu attivo a lungo negli anni della sua maturità, il nome del pittore rimase per molto tempo nascosto tra le righe degli inventari delle collezioni private fino al momento dell’ingresso, nel 1914, nell’appena inaugurata Pinacoteca Tosio Martinengo, della Lavandaia. Quell’opera fu un vero dono, non solo per la munifica disposizione del legato di Teodoro Filippini, ma perché faceva ingresso in un museo pubblico un esemplare di attribuzione tramandata per tradizione familiare permettendo di accendere i riflettori su quel trascurato pittore. Il dipinto venne infatti inviato alla grande mostra dedicata alla pittura italiana del Seicento e del Settecento svoltasi a Firenze nel 1922, iniziativa che, come è ben noto, apre veramente la fase contemporanea della riscoperta critica degli artisti di quelle epoche, visto che erano presentati al pubblico circa milletrecento dipinti provenienti da tutte le parti d’Italia grazie a una selezione guidata da comitati regionali di cui facevano parte in molti casi funzionari dei musei e della pubblica amministrazione.

Ceruti si trovava quindi al centro di quel palcoscenico e la sua opera non lasciò indifferenti i nuovi perlustratori di quelle epoche storiche a lungo trascurate e, tra i primi, Roberto Longhi (1890- 1970), che usò quella mostra come una palestra per l’esercizio del suo formidabile occhio.



Ragazza con il cane (1740-1743 circa); New York, Metropolitan Museum of Art.