La cappeLLa
sistina

Nel 1481, mentre si creò una breve distensione dei rapporti tra Sisto IV e la Firenze medicea, una legazione di pittori della città fu chiamata in Vaticano per affrescarvi le pareti della nuova «Cappella Magna Palatii Apostolici », che il pontefice aveva fatto costruire (1475-1477) nell’ambito dei sacri palazzi.

Artefice della commissione fu molto probabilmente il fiorentino Giovannino de’ Dolci, architetto pontificio e commissario alle Fabbriche apostoliche, colui che aveva materialmente sovrinteso all’erezione della cappella secondo le direttive tracciate dal progettista Baccio Pontelli.

Per le ragioni che vedremo, la fabbrica aveva conosciuto un’immediata risonanza in molti ambienti umanistici della penisola, e la decisione di affidarne la decorazione a un’equipe di eminenti artisti stranieri è sintomatica delle concrete aperture che contrassegnarono la politica culturale del pontificato sistino. Della prestigiosa ambasceria fiorentina, che avrebbe dovuto accreditare le tendenze recenti della superiore cultura toscana, facevano parte Pietro Perugino, Cosimo Rosselli, Domenico Ghirlandaio e Sandro Botticelli(4).

Al momento della stesura dell’accordo tutti gli artisti contraenti erano presenti a Roma. Un famoso documento conservato in Vaticano ci informa che, lavorando diligentemente e impegnandosi a portare a termine i lavori entro il 15 marzo 1482, i quattro pittori si incaricavano di dipingere «decem historias Testamenti Antiqui et Novi cum cortinis inferius»: alla data del contratto (27 ottobre 1481) erano già state eseguite quattro storie dimostrative, sulla cui base si sarebbe poi stabilito il compenso da attribuire alle altre dieci. In un successivo documento, datato 17 gennaio 1482, Giovannino de’ Dolci valuta le quattro storie 250 ducati l’una, comprensivi delle finte cortine, delle cornici e delle effigi pontificie da dipingere nella fascia alta delle pareti.

Il termine conclusivo dei lavori può essere dedotto da circostanze indirette: nell’ottobre 1482 il Perugino era di nuovo a Firenze, dove si era recato per concordare la decorazione di una parete della Sala dei Settanta in Palazzo Vecchio; la commissione fu successivamente revocata per inadempienze e trasferita a Filippino Lippi, ma la presenza in patria del Ghirlandaio e del Botticelli nella stessa occasione ci induce a supporre che per quella data i lavori nella Sistina fossero già terminati.

La cappella era stata voluta da Sisto IV come immagine “corretta” del tempio di Salomone, rievocato nella conformazione, nelle proporzioni e nel prestigio delle funzioni, ma purgato della smodata ricchezza delle ornamentazioni e guadagnato nella sobrietà delle forme alla dimensione speculativa del cristianesimo. Già in questo assunto si manifesta il tema, affrontato anche negli affreschi del Botticelli, del parallelismo fra i due Testamenti, e della superiorità del Nuovo sul Vecchio. Al materialismo e all’esteriorità della religiosità giudaica vengono contrapposti lo spiritualismo e l’interiorità di quella cristiana, alla sovranità del monarca sul popolo eletto il primato del papa sull’ecumene cristiana. Tutto ciò che, nel Vecchio Testamento, si annuncia in forma imperfetta, trova risconto e compiuta realizzazione nel Nuovo. In modo non dissimile, la decorazione affrescata si proponeva di argomentare, sul perimetro interno della cappella, l’equivalenza della vita di Cristo e di quella di Mosè, narrate per episodi simmetrici, in un reciproco rimando di parallelismi concettuali. La vicenda religiosa di Mosè prepara quella del Cristo e acquista valore solo nella prospettiva storica di una prefigurazione dell’avvento messianico; l’assunto, che si conformava alle tesi neoplatoniche della “preesistenza” della religione cristiana nell’ebraica, e della sopravvivenza di questa in quella, collimava con la cultura filosofica dei fiorentini, e non poteva non riuscire gradito al Botticelli, che a quella cultura era più di ogni altro profondamente legato. E proprio al Botticelli spettano gli affreschi che meglio si prestavano a ribadire le contrapposizioni e le analogie tra i due cicli.

Nelle Prove di Mosè («Temptatio Moisi Legis Scriptae Latoris» come spiega il “titulum” lacunosamente riemerso sulla modanatura sottostante l’affresco) lo schema iconografico si svolge secondo un andamento spiraliforme, che è quasi la traduzione compositiva della sinuosità della linea botticelliana. In contraddizione con il dogmatismo prospettico del Perugino, dimostrativo di supposte identità fra verità di fede e verità matematiche, il Botticelli spezza l’unità spazio-temporale della rappresentazione, aggregando nell’unica scena distinti segmenti narrativi, e articolandovi un racconto vario e frantumato, drammaticamente vitale nel decentramento delle funzioni prospettiche. Respinto il sospeso emblematismo dei quadri mitologici degli stessi anni, gli stessi modelli compositivi si frammentano in una visione affollata, più tormentata e icastica, ricca di notazioni episodiche e permeata di un singolare linearismo energetico.

L’inquietudine botticelliana, sottolineata con tensione maggiore rispetto a ogni altra opera anteriore alla “crisi” del periodo tardo, sembra associarsi consapevolmente ai turbamenti della spiritualità veterotestamentaria, ancora cieca alla luce della grazia e non ancora guadagnata alle consolanti promesse della redenzione.




Punizione di Qorah, Dathan e Abiram (1481-1482), particolare; Città del Vaticano, Musei vaticani, Cappella sistina.

Prove di Mosè (1481-1482), intero; Città del Vaticano, Musei vaticani, Cappella sistina.

Prove di Mosè (1481-1482), particolare; Città del Vaticano, Musei vaticani, Cappella sistina.