La primavera

Si è spesso supposto che la Primavera fosse stata dipinta per Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici (1463-1503), cugino di secondo grado del Magnifico, perché proveniente dalla villa di Castello, dove gli inventari la ricordano ripetutamente dal 1598 fino all’inoltrato Settecento (1761), e dove il Vasari la vide già nel 1550, insieme all’opera gemella: «fece [...] femmine ignude assai, delle quali oggi ancora a Castello, luogo del Duca Cosimo di Fiorenza, sono due quadri figurati, l’uno Venere che nasce, e quelle aure e venti, che la fanno venire a terra con gli amori: e così un’altra Venere, che le Grazie la fioriscono, dinotando la Primavera»(5).

In realtà, il recente reperimento degli inventari medicei del 1498, 1503 e 1516 ha permesso di accertare la presenza del dipinto nel palazzo di città in via Larga, dove è menzionato nella «camara terena che è allato alla camara di Lorenzo» come «uno quadro di lignamo apicato sopra el letucio, nel quale è depinto nove figure de donne ch’omini»(6). Confermato così il tradizionale legame con Lorenzo di Pierfrancesco, l’opera si è nel contempo liberata dal riferimento obbligato a Castello, che ne inchiodava l’esecuzione intorno al 1478 (e comunque prima del viaggio a Roma), e potrebbe essere datata negli anni Ottanta, dove meglio si situano l’energia innovativa del segno e l’inedito goticismo degli elementi interni alla figurazione.

L’immagine si materializza nella cornice fiorita di un prato primaverile, lambito della penombra di un boschetto di aranci e disseminato di erbe e piante d’ogni specie, descritte con una minuzia che ha messo alla prova le capacità inquisitive dei commentatori almeno quanto il riconoscimento delle valenze concettuali del dipinto(7). Al di là dell’aranceto, scandito dalle fitte verticali degli alberi, lo spazio è delineato da una siepe di mirto, stagliata in controluce, che forma un motivo ad aureola alle spalle del personaggio centrale, esattamente come il cespuglio di ginepro nel Ritratto di Ginevra Benci dipinto da Leonardo quasi negli stessi anni (1474-1476, Washington, National Gallery). Protagonista dichiarata dell’immagine è così la figura femminile biancovestita, che avanza con il capo velato e il corpo parzialmente avvolto in un mantello vermiglio, elegantemente drappeggiato sul braccio destro e trattenuto col sinistro al di sotto del ventre, di linee leggermente prominenti; le gambe accennano a un movimento di danza o a un lieve incedere, e la mano destra sembra seguire il ritmo della carola eseguita dal gruppo più a sinistra. La dama è designata come Venere dalla pianta di mirto a lei associata, e conseguentemente il boschetto in cui prende corpo l’azione può essere identificato con il giardino a lei sacro, che i miti classici ubicavano nell’isola di Cipro.

Librato in volo sulla testa di Venere, Cupido, il capo bendato e il corpo alato, si appresta a scagliare una freccia ardente in direzione della più esterna delle Grazie che, più a sinistra, unisce le proprie mani con quelle delle compagne, intrecciate nella celebre danza circolare. Le movenze aggraziate delle tre fanciulle, sospese nella figura del ballo, fissano un tipo di bellezza muliebre, biondo e longilineo, divenuto paradigmatico del canone estetico quattrocentesco. Il vento che si ingorga nei pepli, scuotendoli e frastagliandone le superfici in increspature ora arricciate ora aderenti ai corpi, è universalmente considerato il capolavoro botticelliano di quella poetica degli «attributi mossi» di cui parla il Warburg(8) e che l’Alberti, nel De Pictura (1435), raccomanda come soggetto da trattare: «Dilettano nei capelli, nei crini, ne’ rami, fronde et veste vedere qualche movimento. [...] Ma siano, quanto spesso ricordo, i movimenti moderati et dolci, più tosto quali porgano grafia ad chi miri che maraviglia di faticha alcuna. Ma dove così vogliamo ad i panni suoi movimenti, sendo i panni di natura gravi et continuo cadendo a terra, per questo starà bene in la pictura porvi la faccia del vento zeffiro o austro che soffi fra le nuvole onde i panni ventoleggino. Et quinci verrà ad quella grafia, che i corpi da questa parte percossi dal vento, sotto i panni in buona parte mostreranno il nudo, dall’altra parte i panni gettati dal vento dolce voleranno per aria et in questo ventoleggiare guardi il pictore non ispiegare alcuno panno contro il vento».

E poi lo stesso Alberti che, richiamandosi a un passo di Seneca (De beneficiis I, 3), delinea una rappresentazione visiva del gruppo, dove le Grazie, coerentemente al loro significato concettuale, indossano una veste trasparente sulle loro forme verginali: «Piacerebbe ancora vedere quelle tre sorelle, a quali Hesiodo pose nome Eglie, Eufronesis et Thalia, quali si dipignievano prese fra loro l’una l’altra per mano, ridendo, con la veste scinta et ben monda; per quali volea s’intendesse la liberalità, ché una di queste sorelle dà, l’altra riceve, la terza rende il beneficio, quali gradi debbano in ogni perfetta liberalità essere». Le vesti, in luogo della nudità dell’iconografia ellenistica delle Grazie, stanno a significare la sincerità, l’incorruttibilità e la tangibilità di quei benefici morali che le giovani rappresentano e la cui scambievole circolazione si perpetua nella stretta dell’abbraccio.

Sulla sinistra estrema del quadro un giovane nudo, coperto solo di un mantello rosso di cui trattiene i lembi con la mano sinistra, volge le spalle al centro della composizione, come straniandosi da essa; i coturni che l’uomo calza ai piedi, l’elmo e il manto militare, attraversato diagonalmente dalla bandoliera della spada che gli pende su un fianco, lo identificano come Mercurio, qui introdotto in veste di messaggero divino e messo a guardia del sacro bosco. Con la destra alzata il giovane dio agita il proprio caduceo a disperdere le nuvole intrusive, che non devono turbare l’eterna primavera del giardino.

Dalla metà destra del dipinto, una giovane donna sorridente avanza con passo deciso verso il centro della composizione, le vesti scompaginate in un turbinio di stoffe e di petali. La tunica è gremita di fiori di varie specie, raffigurati a ciuffi o intrecciati a mazzetti, che le disegnano addosso un’aiuola multicolore, riecheggiata dalle ghirlande di rose e di mirto strette sul collo e intorno alla vita. Un lembo della veste è sollevato a formare una sacca ricolma di boccioli di rosa, che la dea attinge e sparge sul proprio cammino. Alcuni dei boccioli caduti per via già fioriscono in ordine sparso sul terreno intorno alla figura, la cui funzione evidente è quella di apportare nel giardino i profumi e i colori della primavera.

L’aspetto e i movimenti della donna ce la fanno riconoscere come Flora, dea della giovinezza e della fioritura, patrona dei lavori agricoli e protettrice della fertilità femminile. La collocazione narrativa della sua azione fecondatrice l’associa strettamente all’episodio di inseguimento che ha luogo nell’estremità destra del giardino. Qui, dal fitto della boscaglia emerge oscuramente Zefiro, il vento di ponente nunzio dei tempi primaverili, raffigurato come un essere alato di forme bluastre, in atto di abbrancare la ninfa Clori, che gli corre terrorizzata dinnanzi. Le vesti della ninfa, sconvolte nel disordine della fuga, scoprono generosamente la bellezza del corpo, così come avrebbe desiderato l’Alberti; e i lunghi capelli scompigliati scendono a lambirne i seni e i fianchi. L’incontro fecondante fra Zefiro e la ninfa genera i germogli che fioriscono a getto continuo dalla bocca di questa, secondo la bella immagine di Ovidio. Nei Fasti (V, 193-212) dello scrittore latino, che costituiscono una sorta di trasposizione poetica del calendario romano, si racconta come la stessa Clori, un tempo ninfa nel giardino delle Esperidi, fosse stata posseduta con la forza da Zefiro e come questi, facendone ammenda, l’avesse presa in moglie, portandole in dote una natura eternamente primaverile e dandole ogni potere sui fiori. Da allora Clori, elevata al rango di dea, avrebbe sovrinteso ai processi germinali di ogni specie floreale, mutando il proprio stato di ninfa in quello della divinità latina nota con il nome di Flora.

Botticelli ha dunque trasposto nella sua poetica le coordinate del racconto di Ovidio, allegorizzandovi l’azione benefica del vento che porta i primi tepori stagionali, al cui soffio maturano le sementi. La reminiscenza latina si cala mirabilmente nella cornice metaforica del programma, mirante a conciliare cristianesimo e filosofie naturali. È probabile che la scena, intessuta di sottili richiami a Orazio, Lucrezio e Apuleio, rielabori suggestioni del Poliziano di ascendenza ficiniana, e che Venere, anziché indicare la natura carnale dell’amore pagano, celebri l’ideale umanistico dell’“amor spiritualis”, secondo le teorie platoniche della Theologia(9). La Primavera si pone dunque come rappresentazione cosmologicospirituale della ciclicità universale, dove Zefiro fecondatore si unisce a Flora «dinotando» così la Primavera, simbolo delle capacità generative della Natura; al centro la stessa Venere, identificata con l’“Humanitas” – complesso delle attività spirituali dell’uomo – dirige l’azione concorde delle Grazie, che di questa attività rappresentano il momento operativo. Sulla sinistra Mercurio, simbolo della ragione e del buon consiglio, veglia sul compiersi armonioso del ciclo, dissipando col caduceo le nubi della passione e dell’intemperanza.



Primavera (1482 circa), particolari; Firenze, Galleria degli Uffizi.

Primavera (1482 circa), particolari; Firenze, Galleria degli Uffizi.

Primavera (1482 circa), particolare; Firenze, Galleria degli Uffizi.

Primavera (1482 circa), particolare; Firenze, Galleria degli Uffizi.

Primavera (1482 circa), particolare; Firenze, Galleria degli Uffizi.