CUBISMO, CLASSICISMO,
VARIAZIONI, METAMORFOSI

Con Les demoiselles d’Avignon Picasso era andato oltre le arditezze fauve, perfino oltre lo scabroso Nudo blu e l’idilliaca Joie de vivre di Matisse, rivisitazione modernista del Bagno turco di Ingres.

Le ragazze del bordello di carrer de Avinyó lasciano di stucco anche estimatori e amici stretti dell’artista: i collezionisti Gertrude e Leo Stein; il poeta Apollinaire, certo non un conformista, conosciuto da Picasso in un malfamato caffè alla Gare Saint-Lazare, che sempre aveva sostenuto l’amico pittore. Resta dubbioso, in un primo tempo, anche Braque, sperimentatore delle prime composizioni cubiste. Le loro perplessità, tanto dichiarate da convincere Picasso a tener nascosto il dipinto per anni, riguardavano non tanto il soggetto della tela quanto la brutalità delle figure, ridotte a manichini disarticolati, col volto di maschere primitive, nel decisivo abbandono di ogni canone normativo, estetico e spaziale. Derain confessò a Kahnweiler di aspettarsi da un momento all’altro che Picasso finisse suicida, a testa in giù, dietro al sipario del quadro, insolito anche nel formato (243,9 x 233,7 cm). In realtà, dietro alla tenda tirata dalle “demoiselles” si celava, in metafora, l’atelier del pittore. “Dietro” a quel quadro, alla rottura con le convenzioni della pittura occidentale e agli ulteriori esperimenti sulla forma (come, per quegli anni, Donna con ventaglio, ispirata in modo innovativo anche alla scultura classica, nel corpo statuario, plasticamente strutturato, di Fernande), sta il lavoro di Picasso sulla riduzione geometrica delle forme: lavoro che pur traendo linfa, in un significativo “melting pot”, dalla sensualità delle donne di Ingres, il primitivismo dei bronzi iberici del IV secolo a.C., le cartoline etnografiche e le maschere africane, parte sempre da Cézanne (antesignano della modernità, studiato dalle giovani generazioni grazie anche a importanti retrospettive dopo la sua morte, nel 1906); parte, in altre parole, dal principio cézanniano di raffigurare la natura secondo cilindri, sfere, coni, «in modo che ciascun lato di un oggetto o di un piano sia diretto verso un punto centrale». D’altra parte, nel primo decennio parigino, Picasso aveva scoperto le potenzialità della fotografia. Si era disperato, in un primo tempo, ed era giunto a dichiarare che avrebbe voluto uccidersi, impossibilitato a rendere la realtà come solo la fotografia pareva fare. Ma poi, aveva trovato un modo di trasporre la realtà oltre la realtà, oltre la fotografia. Con la scomposizione geometrica, con lo scomporre e il ricomporre l’immagine, aveva capito di potersi spingere più lontano. Si dice spesso che la rivoluzione cubista sia nata dal dipintoscandalo del bordello catalano. Picasso ha però sempre rinnegato questo primato, fino a dichiarare che il cubismo «non esiste», e ad attribuire all’amico Braque il merito delle prime prove cubiste. Il termine “cubismo”, considerato «la più appassionante avventura nell’arte del XX secolo» (William Rubin, 1989), sarebbe nato in modo fortuito, da una battuta di Matisse, giurato al Salon d’Automne nel 1908: «Ma guarda, dei piccoli cubi!» («Tiens, des petits cubes!») avrebbe detto di fronte ad alcune tele di Braque (del quale furono rifiutati tutti i paesaggi di quell’estate all’Estaque). A lui si era unito nell’autunno di quell’anno Picasso, un po’ come nel 1905 era accaduto con il sodalizio fra Derain e Matisse a Collioure, nella breve stagione fauve. Superando il dato naturale, rinnegando un unico punto di vista, i chiaroscuri e i valori tonali, dissolvendo la prospettiva lineare in uno spazio privo di riferimenti “esatti”, Picasso e Braque dipinsero, fra il 1907 e il 1914 (quando Braque partì per la guerra), non più «quello che si vede», ma ciò che sapevano «essere lì». «Non avevamo intenzione di fare del cubismo, ma di esprimere ciò che sentivamo», spiegò poi Picasso. In questo senso, avrebbe avuto ragione l’amico Cocteau, a constatare in seguito, non senza una vena ironica, che il cubismo aveva fatto immaginare cubi anche e soprattutto «dove non c’erano». In realtà Picasso aveva trovato un luogo d’eccellenza per queste sperimentazioni: Horta de Ebro. Era davvero un villaggio “cubista”– con le case color ocra, l’una vicina all’altra, «proprio come una composizione di cubi», come commentò Fernande, sua compagna di quei giorni. Era l’estate del 1909. Picasso fotografava le case, o il serbatoio dell’acqua, o la fabbrica della vicina Tortosa, poi faceva degli schizzi, e infine trasponeva quelle immagini sulla tela, con le case allungate, il serbatoio deformato, la ciminiera ridotta a un solido geometrico irregolare: «Partì tutto da Horta, capii allora fin dove potevo arrivare». A Parigi i paesaggi di Picasso apparvero in gran sintonia col lavoro di Braque realizzato altrove, specialmente a L’Estaque in Provenza (in seguito frequentarono insieme luoghi come Céret nei Pirenei orientali). Il loro sodalizio cubista fu sorprendente, e lo si capì a pieno, in maniera inedita, nel 1989, all’irripetibile mostra di William Rubin al MoMA di New York (Picasso and Braque, Pioneering Cubism). Perfino gli occhi più esperti facevano fatica a distinguere, in quell’occasione, fra le trecentonovanta opere dei due artisti messe a confronto, un’idea, un’invenzione, un concetto di Braque da quello di Picasso, e viceversa. Si capì con compiutezza di esempi che mai l’avventura cubista avrebbe potuto svilupparsi da uno solo dei due. Dopo una giornata di lavoro, i due amici spesso avevano commentato le reciproche esperienze: una rara armonia, a quanto pare priva di rivalità eclatanti, fra due grandi pionieri. Fra 1909 e 1910 Picasso cominciò a ritrarre in chiave cubista amici come Pallarés, galleristi come Kahnweiler e Vollard. Il ritratto di quest’ultimo, scomposto e giocato su variazioni di grigio e bruno, sorprende per la verosimiglianza, resa da pochi tratti: occhi socchiusi, naso inconfondibile, labbra, riconoscibili come in filigrana nella griglia geometrica della composizione. Sempre sarà così, d’altra parte; in tutte le fasi della proteiforme carriera di Picasso, non è difficile riconoscere il modello: anche nei ritratti più deformati o frammentati come nel caso, per il periodo cubista, della testa in bronzo di Fernande, che pare essere esplosa dall’interno per poi essere ricomposta in particelle («le “spaccai” la testa», racconterà Picasso…). Nel 1911 Braque e Picasso avevano iniziato a inserire lettere e numeri nelle loro composizioni, interrompendo anonimato e areferenzialità delle composizioni precedenti. Va detto che i due artisti non furono i soli a sperimentare il cubismo, e anzi, non si associarono agli altri giovani cubisti nella loro prima grande esposizione al Salon des Indépendants (primavera 1911), né subito dopo a quella del Salon d’Automne, e neppure a quella della Section d’Or del 1912. Risale al 1913 l’ultima serie illustrata di saggi di Apollinaire sugli artisti cubisti (Les Peintres cubistes), fra i quali, oltre a Picasso e Braque, figurano Metzinger, Gris, Gleizes, Léger, Picabia, Duchamp. In quella pubblicazione l’editore, a insaputa dello scrittore, aveva aggiunto al titolo l’indicazione «meditazioni estetiche»; ma già un anno prima, il 3 aprile 1912 (Chroniques d’art, in “L’Intransigeant”), Apollinaire avvertiva che forse non era più il momento «di parlare di cubismo», che il tempo delle ricerche era finito, e i giovani artisti volevano adesso passare «a realizzare opere definitive». Il cubismo si stava già trasformando in qualcos’altro (Apollinaire per primo cominciò a usare l’espressione “surréalisme”) e si dissolverà con l’inizio della Grande guerra e la partenza al fronte di molti artisti, ma non di Picasso (la Spagna non fu coinvolta nel conflitto, e lui restò a Parigi). In questo contesto, i mutamenti si avvertono già nel 1912: risale al maggio di quell’anno una tappa fondamentale nel percorso di Picasso, che in Natura morta con sedia impagliata inserisce un frammento di tela cerata, a simulare l’incannicciatura alla viennese di una sedia: è questo, a quanto pare, il primo di una serie ricca e fortunata di collage. Picasso dipinge, scolpisce, comincia ad assemblare materiali diversi, forse ancor prima di Duchamp e dei Dada, coi quali comunque era in contatto, fin dal 1916. Intanto il suo amore per Fernande si è concluso, e come sempre accade in una nuova stagione sentimentale, Picasso nel 1912 cambia abitazione, lascia il Bateau-Lavoir, si trasferisce dalla parte opposta di Parigi, a Montparnasse, boulevard Raspail, allora, al pari di Montmartre, “un petit village“, un piccolo villaggio frequentato da intellettuali come Cocteau. Picasso si rinnova, indaga altre possibilità. Ha conosciuto una giovane esile e cagionevole di salute, Eva Gouel, e a lei dedica in modo quasi occulto alcune fra le sue ultime opere cubiste, contraddistinte dal suo omaggio alla donna amatissima: «Ma jolie» (Mia bella), scrive in quelle composizioni, e sarà, in tutta la sua carriera, uno dei rari accenni diretti, scritti “dentro” una sua opera, a una donna. Eva muore di tisi nel dicembre del 1915. Intanto, dopo la guerra, torna dal fronte gravemente ferito Apollinaire, che all’amico dedica Alcools. Al gruppo si unisce Max Jacob, e poi Jean Cocteau, che con le scenografie di Picasso, la musica di Satie, i Balletti russi di Diaghilev, vuole creare il balletto Parade. Vi danzano le settanta “étoiles” di Diaghilev e fra queste la bellissima Olga Khokhlova. Picasso la conosce quando si reca in Italia con Cocteau, nel 1917, e la sposerà un anno dopo. Per il sipario e i personaggi del balletto inventa una fantasia ispirata al circo con dei ballerini travestiti da giganteschi “imbonitori”, uno dei quali somiglia, ci pare, al travestimento di Hugo Ball andato in scena a Zurigo nel 1916 nel primo spettacolo dada. Quando, nel maggio del 1917 al teatro Châtelet di Parigi, il sipario si alza, il pubblico è urtato, in subbuglio. Le sperimentazioni non si fermeranno, nonostante le critiche, nonostante la morte di Apollinaire, nel novembre del 1918, per la febbre spagnola, che lascia Picasso desolato. Intanto il matrimonio con la bella Olga (che gli darà nel 1921 il primo figlio, Paulo), conformista e amante della mondanità e degli agi, porta ad altri cambiamenti. Il mercante Paul Rosenberg, che si assicura una sorta di esclusiva con il pittore, gli procura un appartamento elegante, con atelier al piano di sopra in rue la Boétie, vicino alla sua galleria, in una zona più tranquilla e borghese. Ecco dunque che Picasso si dedica a una nuova indagine sulla forma e sul colore: un nuovo classicismo, che guarda in primo luogo a Ingres, come si vede nel ritratto di Olga in poltrona, abbigliata con un vestito raffinato e leggero. Ma poi Picasso comincia a gonfiare i corpi, a renderli giganteschi e volumetrici, con enormi mani e piedi: donne che corrono sulla spiaggia, gigantesche figure arcadiche che suonano il flauto. Descrive anche l’orgoglio della paternità: il piccolo Paulo diventa un modello che rigenera la sua pittura, un dolce bambino vestito da Arlecchino o da clown, oppure seduto su un panchetto, mentre disegna. Anche la stagione del classicismo e dei giganti si conclude, come si concluderà presto l’amore per Olga, dalla quale comunque Picasso non divorzierà mai. 

La danza (1925) è un dipinto esemplare di questi cambiamenti: vi aleggiano fantasmi di un passato doloroso, la perdita dell’amico Casagemas, rievocato, si dice, nell’ombra di profilo ma anche con la presenza dell’amata di Carlos, Germaine, riconosciuta nella ballerina nuda al centro della composizione, che danza come un’indemoniata; una sessualità che diviene violenta e foriera di morte. Due anni dopo, mentre il matrimonio con Olga è in crisi, Picasso incontra la diciassettenne, bionda e statuaria Marie- Thérèse Walter. Un incontro che lascia un segno duraturo. Lei è minorenne e la relazione tutt’altro che innocente che s’instaura fra i due è rievocata dapprima con delle semplici iniziali in alcune composizioni di spartiti musicali. Poi compare, deformata e quasi mostruosa, nei dipinti che ritraggono donne maestose sulla spiaggia. Opere che testimoniano un periodo sentimentale particolarmente complicato per l’artista, che ancora si divide fra la bruna moglie e la giovane, bionda amante. Picasso arriva a fotografare decine di volte il volto di Marie-Thérèse, che poi, divenuta maggiorenne, prenderà forme più definite nei ritratti, nei numerosi nudi, d’intensa sensualità, o in dipinti come Il sogno. Picasso ha acquistato un castello a Boisgeloup in alta Normandia, dove può ritirarsi lontano dalla moglie, a scolpire e dipingere infiniti ritratti dell’amante. Si dedica intanto anche all’incisione, e al tema erotico del minotauro, dove sempre è presente la figura della giovane Marie-Thérèse. Quasi come un’ombra invisibile, la Walter nel 1935 gli darà una figlia, Maya, e gli resterà fedele tutta la vita. Comunque anche la relazione con Marie-Thérèse comincia a esaurirsi, in qualche modo sostituita, anche se non del tutto, da un personaggio che sta agli antipodi della figura solare della giovane bionda: la bruna fotografa e intellettuale Dora Maar, l’unica, al tempo, che avrebbe potuto in qualche modo discutere alla pari con l’artista, ma che forse anche per questo fu spesso umiliata da Picasso, quasi annientata in un rapporto di sudditanza obbligata. Per Picasso, Dora, ritratta innumerevoli volte, sarà sempre la donna tormentata, la figura colta in una smorfia, la donna che piange.