IO, PICASSO

Oltre sette decenni separano Yo Picasso, il più eloquente fra gli autoritratti realizzati a Parigi nel 1901, a vent’anni, dagli ultimi che l’artista spagnolo ci ha lasciato: in particolare, dai due noti come Il giovane pittore, del 14 aprile 1972, e Autoritratto, del 30 giugno 1972, entrambi eseguiti a Mougins in Provenza, sulle colline alle spalle di Cannes.

Qui, nella dimora della vecchiaia, nei pressi di Notre Dame-de-Vie, Picasso è morto un anno dopo, a novantun anni passati. Il confronto fra queste opere permette di cogliere in un colpo d’occhio, in estrema sintesi, l’essenza dell’intera pittura del più geniale e prolifico artista del XX secolo.

Un filo diretto pare legare idealmente il primo, magnetico autoritratto, ai due eseguiti, insieme ad altri veloci schizzi, negli ultimi mesi di vita. A distanza di settant’anni, dichiarano talento ed energia vitale ma anche passioni e idiosincrasie di un artista che qui esamineremo per la sua opera pittorica, ma che si espresse, in modo altrettanto eccelso, con i mezzi e le tecniche più disparate.

L’olio su tela che trae il titolo dalla scritta «YO Picasso» tocca il culmine di una precoce formazione. Fu dipinto in un periodo di grande svolta, quando l’artista era appena giunto a Parigi dalla Spagna, nel maggio del 1901. In poche settimane si era trovato a preparare freneticamente una mostra dal gallerista Ambroise Vollard, inaugurata il 25 giugno. L’autoritratto “di artista da giovane”, all’ingresso dell’esposizione, fu ben accolto dai critici. Non conosciamo, però, i passaggi successivi, sino alla fine di ottobre del 1912, quando il quadro fu acquistato da Hugo von Hofmannsthal, alla Galleria Thannhauser di Monaco di Baviera. Il grande scrittore austriaco dovette ammirare gli occhi scuri del giovane andaluso, fissi sullo spettatore, lo sguardo penetrante, sicuro, la consapevolezza di un talento enfatizzato dall’energia perentoria della scritta dipinta in alto a sinistra, con pennellata pastosa alla maniera di Van Gogh, oggi visibile solo a chi vi si avvicini: «YO» (cioè IO), e «Picasso», il cognome della madre sostituito proprio quell’anno al meno incisivo Ruiz del padre. Da allora, per sempre, per tutti, sarebbe stato, semplicemente, Picasso. Pare sentirlo proclamare, con la tavolozza in mano di fronte alla sua tela così ben riuscita: «Questo sono io, Picasso. Sono bravo, sono il re, lo dimostro oggi, lo confermerò in futuro». A Barcellona, un anno prima di partire per la Francia, sopra un foglio (perduto), Pablo aveva profetizzato la sua folgorante carriera: in un autoritratto a matita aveva segnato attorno al capo, più volte, la frase «Yo, el Rey» (Io, il re), con le parole in serie, come a configurare una corona regale. In altri ritratti scrisse solo: «YO», e in altri ancora dichiarò con fierezza «Yo, El Greco», a indicare senza falsa modestia la propria filiazione dal primo grande pittore della tradizione spagnola. Poteva immaginare, Picasso, che sarebbe stato osannato come l’artista patriarca del XX secolo? Che avrebbe superato, per fama e successo, illustri conterranei come El Greco, Velázquez, Goya, cui piaceva paragonarsi? In YO Picasso il giovanissimo artista si volge allo spettatore in una posa simile all’Autoritratto di Poussin del Louvre (1650), ritenuto un altro dei suoi modelli. C’è tuttavia una distanza abissale fra la rapida pennellata dello spagnolo e quella del classicista francese.

Nell’autoritratto del maestro di Malaga, il foulard arancione, accomodato attorno al collo con disinvolta ostentazione, spicca sul candore dell’ampia blusa. Non è solo un espediente che accentua i contrasti cromatici e dà quasi l’idea di uno scatto improvviso, ma è pure un modo per dichiararsi al mondo, con ardimento pari a quello di un torero. L’abbigliamento appariscente segnala inoltre uno status symbol necessario a chi, da outsider, vuole farsi notare. Una simile autorappresentazione di giovane artista attento al vestiario non tornerà nella bohème condivisa a Montmartre con artisti e poeti in miseria come lui. Vedremo allora Picasso in abiti modesti, assieme agli amici o da solo, in studio, vicino a opere, per terra e alle pareti, disposte in gran disordine: un caos “calmo”, indispensabile costante per il suo habitat creativo. Quando, infinitamente ricco, sarà immortalato da fotografi come Brassaï, Irving Penn, Man Ray, Dora Maar, Robert Doisneau, Robert Capa, André Gomes, Henri Cartier-Bresson, David Douglas Duncan, Gjon Mili, Lucien Clergue, Arnold Newman, André Villers, Michel Sima, Juan Gyenes, lo vedremo a Parigi in abiti pesanti ma quasi casuali, oppure in Costa azzurra con sandali o espadrillas, a petto nudo o con l’inconfondibile maglietta a righe bianche e blu, quella stessa che nel 1998 ha indossato il pupazzo di Picasso ricreato da Maurizio Cattelan in una memorabile performance al MoMA di New York. Da icona del modernismo – si disse – Picasso si era allora trasformato in icona pop. Gli artisti moderni gli devono molto, e lo testimoniamo gli ininterrotti omaggi internazionali alla sua opera.

E Picasso? Quanto deve alla tradizione? Per quanto le sue radici nel passato siano profonde, si tratta solo di subliminali punti di partenza. Picasso ha sempre rivendicato la propria autonomia, l’essere unico e irripetibile artefice della propria opera. L’unico artista dei suoi tempi stimato in modo incondizionato fu Matisse, mentre il modello più importante dell’immediato passato era Cézanne.

Più di una volta Picasso ha suggerito di sfogliare il suo catalogo, anno per anno, decennio per decennio – oltre sedicimila opere, fra dipinti, sculture, disegni, incisioni, collage, assemblaggi – come un quaderno di memorie, un diario intimo scritto per se stesso nel quale il pubblico sia libero di vedere ciò che crede, o vuole. Il “mistero Picasso” si disvela, almeno in parte, in una perenne autorappresentazione, in una metamorfosi dell’immagine tanto naturale da sembrare scaturita come per magia dal suo pennello. Come altri esponenti delle avanguardie, Picasso fu talvolta criticato per l’apparente distacco dal dato reale, per quelle sue figure deformate attraverso incessanti trasformazioni, ma lontano dalle mode, e mai astratte, anche quando l’astrattismo imperava.

Ai potenziali detrattori Picasso sembra aver replicato con un’esemplare spiegazione: «Ho impiegato tutta la vita per riuscire a dipingere come un bambino». Nella primavera del 1946, a una mostra parigina del British Council sull’arte infantile aveva mormorato a chi lo accompagnava che in un contesto del genere non avrebbe potuto esporre i suoi dipinti realizzati da giovinetto quando sapeva disegnare già come Raffaello e i suoi disegni, tavolette, tele attestavano doti paragonabili a quelle di un maestro rinascimentale. La madre, María Picasso, raccontava che al tempo dei primi balbettii, il bimbo non le aveva mai chiesto un balocco; sillabava invece la parola “la-piz”, una matita per fare scarabocchi.

Ai primi corsi d’arte in Spagna, l’adolescente copiava con mano sicura busti e torsi antichi. Appena poté, si affrancò tuttavia dai canoni accademici dell’arte classica e dalla pratica della copia. «Io non copio, rubo», pare sia stata una delle sue provocazioni, poi a dire il vero molto strumentalizzate, banalizzate, e spesso citate a sproposito.

Così, nell’inconsueto Autoritratto con parrucca del 1900, con i tratti invecchiati, il richiamo a Velázquez e a Goya si stempera in un’opera già innovativa e autonoma. E se anche il critico catalano Miquel Utrillo, a Parigi nel 1901, dirà che i francesi chiamavano Picasso «le petit Goya à Paris», il piccolo Goya parigino, diverrà presto difficile – per mercanti, critici, collezionisti – paragonare Picasso a qualcun altro. Anche nell’Autoritratto dipinto a Parigi alla fine del 1901, qualche mese dopo la mostra da Vollard (conservato dall’artista per tutta la vita, poi passato al Musée Picasso di Parigi), il giovane che nel giugno dello stesso anno si era effigiato in Yo Picasso con sguardo deciso appare sin troppo maturo, se non vecchio come quando indossa una parrucca settecentesca grigia. Il volto scavato, gli occhi malinconici, il paltò scuro che risalta dall’azzurro del fondo denuncia l’inizio del suo periodo blu, che dai colori e i volti cupi emana mestizia. Diviene abissale, allora, il confronto con il già citato ritratto dipinto in vecchiaia, Il giovane pittore. In quest’olio su tela, tenue come un acquerello, Picasso raffigura, il 14 aprile 1972, un artista-bambino, quasi indefinito nei contorni, sfumato in un apparente non-finito sui toni del grigio, ravvivato da fluide pennellate malva sul bianco “risparmiato” dalla superficie della tela. È un autoritratto camuffato, una sorta di testamento spirituale: un vecchio nascosto dietro al volto di un giovane. Nei tratti ridotti all’essenziale l’artista ultranovantenne pare rinunciare a qualsiasi superfluo dettaglio. Il cappello a tesa larga, inoltre, pare il medesimo raffigurato un paio d’anni prima in un grande olio su tela noto come Vecchio uomo seduto (dipinto a Mougins fra il 1970 e il 1971). Qui il vecchio guarda perplesso e stanco lo spettatore.

Che si tratti, anche in questo caso, di un autoritratto camuffato, lo dimostra una fotografia di Brassaï, scattata a Mougins qualche mese dopo, il 18 maggio 1971. Qui Picasso è seduto, con lo stesso sguardo penetrante del quadro. Nel Vecchio uomo seduto si riconosce anche l’omaggio ai grandi maestri di fine Ottocento: Van Gogh, Cézanne, e soprattutto Renoir, morto nel 1919 a seguito di un’artrite reumatoide che l’aveva costretto in carrozzella (Picasso possedeva una foto di Renoir in quella penosa condizione).

Il giovane pittore è in realtà il vecchio Picasso che dipinge come un bambino, con lo sguardo fra il sornione e il picaresco. Al termine di un processo durato oltre settant’anni, l’anziano pittore è riuscito finalmente a dipingere come un “jeune peintre” e ha potuto assorbire, da ultranovantenne, la levità, il sorriso, la libertà dell’infanzia. Poco dopo aver dipinto l’ammiccante giovane pittore, traccia quello sconcertante autoritratto simile a un teschio: gli occhi sbarrati, la barba incolta, in attesa di una morte da lui notoriamente sempre molto temuta. All’amico Pierre Daix, fra i pochi ammessi a visitarlo a Mougins negli ultimi tempi, mostra quel suo pastello appoggiato su una sedia, dicendogli che mai aveva fatto niente di simile. Poco dopo lo metterà in vendita alla Galleria Leiris, come se volesse disfarsene prima di morire. Picasso non sopportava di sentir parlare di evoluzione dell’arte, tantomeno nella sua opera. Non credeva negli stili né nelle facili etichette. La sua idea personale, mai rinnegata nel corso degli anni, era che nella sua opera non esiste passato né futuro, tutto si concentra nella forza del presente. In questo caso, è il suo sguardo annichilito di fronte alla morte, che lo coglierà l’8 aprile 1973.