DALLA PRIMA COMUNIONE ALLE DEMOISELLES D’AVIGNON 1896-1907

Fin dalla nascita Picasso ha manifestato una prorompente vitalità. La sera del 25 ottobre 1881, a Malaga, dopo istanti di silenzio raggelante, il neonato creduto morto finalmente urla. È vivo e si fa sentire. Viene chiamato Pablo, ed è il primogenito di José Ruiz y Blasco e María Picasso y Lopez.

Dal padre, professore di disegno e modesto pittore, Pablo trae i primi insegnamenti, dopo aver iniziato a disegnare ancor prima di parlare. Appena adolescente comincia però a distaccarsi dalla limitata visione paterna della vita e dell’arte. Con la madre, meno incline a chiusure e depressioni, ha invece un legame profondo, che serba tutta la vita. Dopo i primi scarabocchi, il bimbo aiuta il padre a dipingere piccioni. Talvolta José inchioda su una tavoletta le zampe di piccioni morti perché il figlio termini i quadretti con precisione anatomica, e presto comprende di non aver più niente da insegnargli. Dipingere è l’ossessione del figlio, che presto viene colto anche dalla più tipica “afición” spagnola, la passione per la corrida, che non lo abbandonerà più. All’incirca a nove anni dipinge un Picador a cavallo, scena che nel 1900 vediamo rielaborata in modo più maturo e quasi espressionistico, in un minuscolo acquerello su carta: “Picador” con il “monosabio”. Il “picador” ha un ruolo fondamentale nel rito cruento della corrida, mentre l’aiuto torero, il “monosabio”, monta dietro di lui sullo stesso cavallo. Picasso ha ripreso questo tema decine di volte, in disegni, incisioni, ceramiche, fino a identificare il picador nella figura mitologica e sensuale del centauro. Ecco dunque prendere forma, sin dai primi anni, la corrida, il sangue, la morte, l’uomo, la bestia, temi prediletti per tutta la vita, assieme alle infinite variazioni sui temi della donna, dell’amore, dell’eros. Intanto, nel 1891, la famiglia si è trasferita in Galizia, a La Coruña, città umida e grigia. Qui, a undici anni, Pablo è ammesso ai corsi di disegno ornamentale della Scuola di belle arti. Agli inizi del 1895 la sorellina Conchita di sette anni muore per difterite: l’atmosfera dolente si rilegge nella grande tela dipinta a Barcellona due anni dopo, Scienza e carità, che ha una menzione d’onore all’Esposizione generale di belle arti di Madrid. La scena s’ispira in parte alla Visita della madre del madrileno Enrique Paternina (1891); la figura del medico che tasta il polso alla malata è esemplata però sul padre José, mentre la bimba in braccio alla suora pare un omaggio a Conchita. Ormai i familiari chiamano Pablo “il pittore”. Il suo tocco sembra magico. Inchiostri, matite, pastelli, colori e supporti di ogni genere si lasciano volentieri addomesticare. L’inventiva non gli manca, e arriva a confezionare in famiglia due riviste illustrate da vignette. Quando il padre si trasferisce a Barcellona per insegnare alla Llotja, la Scuola di belle arti, Pablo è ammesso alle classi d’arte classica e natura morta. Ha superato l’ammissione consegnando la prova di disegno in poche ore, nonostante avesse diversi giorni di tempo. Già adesso è veloce, non ritocca mai ciò che ha tracciato. Piuttosto passa ad altro, o ridipinge sopra un altro soggetto: questa sarà sempre, in generale, la sua pratica. A chi gli obietterà l’apparente non compiutezza di certi suoi lavori, Picasso farà capire che se “forse” può esser lecito ritenere “non rifinita” un’opera di Michelangelo, certamente non si può dire altrettanto di una sua. Il gesto creativo di Picasso corrisponde sempre e solo a un preciso momento. Niente è da aggiungere o da cambiare. Nasce adesso, a Barcellona, il sodalizio con l’artista catalano Manuel Pallarés, più grande di sei anni: un’amicizia interrotta solo dalla morte di Picasso, scomparso nel 1973, un anno prima dell’amico, con cui da giovane tiene il primo atelier in carrer de la Plata. Una delle più antiche “grandes machines” di Picasso, la Prima comunione, risale all’inverno del 1896 e ottiene la menzione d’onore all’Esposizione di Barcellona e la medaglia d’oro a quella di Malaga. La grande tela raffigura la sorella Lola, di tre anni più giovane, inginocchiata di fronte all’altare, con i guantini e il libretto di preghiere dai margini dorati. L’uomo in piedi, composto e austero, è il padre. Sebbene dipinta secondo i canoni accademici, la composizione verticale ha un bel gioco di luce nel biancore immacolato della veste della bambina, e un tocco di realistica vivacità nel chierichetto sorridente che sistema il vaso di fiori. Resta difficile pensare quel gran quadro come opera di un quindicenne. Pablo è curioso, avido di conoscere. Fra settembre e ottobre del 1897 parte da solo per Madrid. Ha sedici anni, frequenta le classi di paesaggio e disegno dall’antico all’Academia de San Fernando, e al Prado studia e copia i grandi maestri. Si ammala però di scarlattina e a fine giugno del 1898 accetta l’invito di trascorrere la convalescenza nel villaggio natale di Pallarés, Horta de Ebro (oggi Horta de Sant Joan). Affascinato dalla campagna, Picasso prolunga il soggiorno con l’amico. «Tutto quello che so», ricorderà, «l’ho imparato a diciassette anni nel paese di Pallarés». Il contatto con la natura sarà sempre una sua esigenza, utile a concentrarsi e a prendere le distanze dalle frenesie della città. Come notava Antonina Vallentin, che lo frequentò negli anni Cinquanta, nelle opere di Picasso anziano c’è ancora qualcosa che fa pensare alla vita all’aria aperta, come se a Horta il ragazzo avesse fatto scorta inesauribile di luce, sole, calore. A Barcellona Picasso torna nell’aprile del 1899, e divide lo studio con uno scultore più anziano. Qui incontra il coetaneo Jaime Sabartés, suo futuro biografo, segretario, amico fino alla morte, avvenuta nel 1968. Picasso lo ritrae sin dal 1899, e otto di quei ritratti saranno pubblicati da Sabartés nei suoi Portraits et souvenirs. Nel ritratto noto come Il boccale, Jaime è seduto a un tavolo, con un enorme boccale di birra. La tela è un riuso: i raggi X (1968) hanno svelato che Picasso vi aveva dapprima raffigurato alcuni bambini. Sabartés era solo, quel pomeriggio del 1901, in un caffè di Parigi. Si annoiava e il suo sguardo vagava, col pensiero alla deriva, quando Picasso era piombato nel locale. Senza saperlo, Jaime gli servì da modello. Picasso tornò in studio e dipinse a memoria. Poi l’ignaro amico riconobbe la sua fisionomia ancora fresca sul cavalletto, e si sorprese rivedendosi riflesso «con lo spettro» della propria solitudine. Intanto, già prima di recarsi a Parigi Picasso aveva cominciato a firmarsi Pablo Ruiz Picasso, poi semplificato in «Picasso ». A Barcellona, fervida di nuove idee, aveva frequentato il più aggiornato mondo letterario e artistico. Era la città dei rivoluzionari esperimenti architettonici di Gaudí, delle teorie di Nietzsche propagatesi dalla Germania fra i giovani catalani che già allora anelavano all’autonomia dal governo spagnolo. «Sarete quattro gatti», aveva sentenziato qualcuno agli amici che avevano appena fondato il mitico locale, subito ribattezzato Els Quatre Gats. Il più giovane fra quegli artisti e intellettuali, Picasso, considerava quel ritrovo una seconda abitazione e in diverse occasioni ne disegnò diverse locandine e menù. Le sue illustrazioni avevano cominciato a esser pubblicate sulle riviste, e “La Vanguardia” aveva pubblicato una recensione ai piccoli ritratti su carta degli amici che Picasso aveva esposto nella taverna di Els Quatre Gats. Qui, nel 1900, Picasso aveva incontrato, fra gli altri, Carlos Casagemas, più grande di un anno, con cui aveva condiviso un atelier in carrer Riera de Sant Joan. A fine settembre i due amici, poi raggiunti da Pallarés, avevano dunque affrontato, con scarsi mezzi e molto entusiasmo, il primo viaggio a Parigi. Per qualche mese si erano installati in rue Gabrielle a Montmartre, nello studio del catalano Isidre Nonell. Avevano visitato l’Esposizione universale, dove la Spagna esponeva anche un dipinto di Picasso, e subito erano entrati a far parte di una bohème allegra e gioiosa, povera ma sensuale. L’amico catalano Pere Mañach, figlio di un ricco industriale, diviene uno dei primi acquirenti di Picasso, di cui rivende tre pastelli con la Corrida a Berthe Weill, che inaugura poco dopo una piccola galleria. È allora che il diciannovenne andaluso raffigura il Moulin de la Galette: una tela vibrante di colori, che sulla scia delle scene di vita moderna di Degas e Toulouse- Lautrec rappresenta, con piatti tocchi postimpressionisti, l’eccitante locale parigino, dove si mescolano ricchi signori, belle donne e prostitute. È questa la sua prima tela a essere venduta dalla Weill ad Arthur Huc, editore del quotidiano di Tolosa, fra i più avvertiti collezionisti del momento, che poi la cederà al monacense Justin Thannhauser (dal 1978 è al Guggenheim Museum di New York). Se in quei mesi Picasso e altri amici godono dei favori concessi dalle disinibite frequentatrici dei caffè parigini – modelle di artisti squattrinati, ballerine, prostitute – Casagemas è infelice «in quella specie di Eden o di sudicia Arcadia», come la chiama. Innamorato dell’inarrivabile Germaine Gargallo, Carlos soffre d’impotenza. Disperato e in preda all’alcol, cade in una depressione dalla quale Picasso tenta di salvarlo, riportandolo a fine anno in Spagna. Carlos peggiora, e Picasso si dispera non riuscendo a far niente di più per l’amico, che infine torna a Parigi. Qui, con un colpo di pistola alla tempia, si suicida il 17 febbraio 1901, dopo aver tentato di uccidere Germaine. È un duro colpo per Picasso, che si trova ancora a Barcellona. Sebbene provato dalla disgrazia, lavora senza sosta per tornare a fine maggio a Parigi. Qui abiterà con Pere Mañach, in uno studio che Casagemas aveva condiviso con altri artisti. Quel periodo segna per Picasso un deciso cambiamento. Nel corso di cinque o sei settimane pare abbia prodotto decine di opere che saranno esposte, assieme a quelle del più anziano Francisco Iturrino, a una mostra organizzata da Ambroise Vollard, in rue Laffitte, dal 25 giugno al 14 luglio. Alcuni dipinti li ha portati dalla Spagna, e fra questi l’imperiosa Donna in blu, all’incrocio fra una maschera della Commedia dell’arte, un ritratto cortigiano di Goya e una ballerina di Lautrec. In tutto le opere esposte saranno sessantaquattro. È in quest’occasione, con il già citato Yo Picasso, prima opera del catalogo, che il giovane annuncia se stesso al mondo dell’arte. Da Vollard conosce anche Max Jacob, figura intensa di poeta e intellettuale, cui resterà molto legato. Il 10 luglio il catalano Pere Coll recensisce su “La Veu de Catalunya” alcuni quadri di Picasso visti alla mostra: «Sono realizzati con molto coraggio e la sua grande sicurezza denota la fibra del pittore». Fra i dipinti descritti, oltre a Yo Picasso, figura il bellissimo Ritratto di Pedro Mañach (Washington, National Gallery of Art), con la scritta in lettere maiuscole «PETRUS MANACH», la cui sagoma sembra stagliarsi dal fondo oro, essenziale e quasi geometrica, come in un quadro di Klimt. Del Ritratto di Iturrino (sopra il quale Picasso dipingerà poi un altro soggetto), resta solo uno scatto fotografico eseguito dopo la chiusura della mostra: sullo sfondo di alcune tele si vedono i due amici – Picasso e Mañach – visibilmente soddisfatti. Vollard aveva esposto anche La nana (oggi al Museu Picasso di Barcellona), sgraziata ballerina in tutù colta con pennellate veloci e colori brillanti, stesi con la tecnica del “pointillisme”. Il giovane artista comincia a essere notato. Sulla “Revue blanche” esce un articolo entusiasta (L’invasion espagnole: Picasso) di Félicien Fagus, che lo descrive «prolifico e fecondo, violento ed energico, dotato di brillante virilità e di uno stile autonomo, sebbene tragga ispirazione dai maestri francesi più anziani». Il critico si mostra però poco lungimirante quando avverte che l’impetuosità e il facile virtuosismo rischiano di portarlo a un successo immediato ma effimero. Dopo la mostra, Picasso continua a dipingere scene di caffè e teatri, amanti malinconici, donne colte nella loro intimità, prostitute, bevitrici di assenzio, falsi nobili decaduti che fanno vita da clochard. È allora che da Barcellona Sabartés raggiunge Picasso, ed è in quei primi giorni che l’amico lo ritrae, malinconico, nel dipinto Il boccale al quale si è accennato. 

È iniziato il periodo blu, che dura circa tre anni ed è marcato da personaggi disperati e sofferti, con i volti emaciati per privazioni e malattie. Immaginati sui toni del blu e del verde scuro, emanano disagio, indigenza: fra i tanti, la Bevitrice di assenzio, Il pasto del cieco, La vita, L’incontro. Questa fase è influenzata, almeno in parte, dalla tragedia del suicidio di Casagemas. Pur non avendo visto il cadavere, Picasso lo aveva raffigurato a Barcellona, in un piccolo dipinto col volto sbiancato nella bara. Adesso lo omaggia in Evocazione. La sepoltura di Casagemas, ispirato alla cupa visionarietà di El Greco e alle figurine svelte realizzate da Cézanne su simili toni bluastri e verdi. La sua Apoteosi di Delacroix (1894, Parigi, Musée d’Orsay, in deposito al Musée Granet di Aix-en-Provence) all’epoca era esposta in galleria da Vollard, e Picasso doveva conoscerla. Fino al 1903 il giovane si alterna fra Parigi e Barcellona. Comincia a scolpire, pratica che non abbandonerà mai e che avrà un ruolo primario nella sua carriera, anche se tenuta in gran parte nascosta. A ottobre del 1902, a Parigi, si trasferisce da Max Jacob in boulevard Voltaire, e ne condivide il letto: Pablo dorme di giorno, quando l’amico va al lavoro, e dipinge di notte mentre Max dorme. La miseria è tanta, e per qualche tempo Picasso è costretto a tornare in Spagna. Una nuova, decisiva sterzata avviene nel 1904, anno del trasferimento definitivo a Parigi. Ad aprile, con gli amici spagnoli di Montmartre e con il poeta André Salmon, s’installa nel malsano ambiente del Bateau-Lavoir in rue Ravignan 13: una cittadella degli artisti delle avanguardie, dove si lavora, si scambiano idee, si fuma oppio. Oppure ci si muove da lì per frequentare il fumoso Lapin Agile, locale tenuto da Frédé, un tipo stravagante che suona la chitarra vicino a un asino. Dopo qualche prima relazione sentimentale (emersa solo dalle carte scoperte dopo la morte di Picasso), avviene l’incontro con Fernande Olivier, una giovane divorziata che frequenta gli artisti, con la quale vivrà per diversi anni. Picasso si appassiona al circo dove già il padre lo portava in Spagna. Ai piedi della collinetta di Montmartre l’artista conversa con i clown del circo Medrano. Resta affascinato dall’umanità variegata e nomade di saltimbanchi, acrobati, pagliacci, giocolieri. È allora che inizia il periodo rosa, caratterizzato da toni tenui, color pastello: bianchi delicati, ocra, lilla quasi opachi, come sabbiosi. Intanto espone dipinti e incisioni alle Galeries Serrurier in boulevard Haussmann, e frequenta, dall’autunno del 1905, il salotto parigino di due illuminati espatriati americani, i fratelli Leo e Gertrude Stein. Picasso è amico anche del poeta Apollinaire, fra i suoi primi estimatori, che in un primo scritto lo definisce «peintre et dessinateur» (pittore e disegnatore). Nel 1906 ammira le sculture iberiche preromane al Louvre e trascorre l’estate con Fernande a Gósol, villaggio dei Pirenei a sud di Andorra. Adesso si avvicina a immagini serene che rievocano anche la scultura antica. Eppure, al ritorno a Parigi, muta ancora percorso. Inizia a ridurre le forme secondo solidi geometrici, schematizza le figure. Comincia a studiare il primitivismo di Gauguin, s’ispira anche a cartoline etnografiche e fotografie orientaliste. Nel frattempo è divenuto suo mercante il giovane Henri Kahnweiler, che ha aperto una piccola galleria. Nel 1907, quando a Parigi le gallerie si contano sulle dita di una mano, Kahnweiler stipula contratti con gli artisti, se ne assicura l’intera produzione, e garantisce loro una rendita perché possano superare le ristrettezze economiche. Cosa sarebbe stato di loro, si domanderà poi Picasso, se Kahnweiler non avesse avuto quel senso spiccato per il business? Intanto, dagli Stein conosce Matisse e poco dopo ammira il disarticolato, sconvolgente Nudo blu (Souvenir di Biskra), esposto nel 1907 al Salon des Indépendants. In un certo senso, Les demoiselles d’Avignon rappresentano la risposta estrema a Matisse, la dimostrazione di poter andare oltre. Dopo mesi di rifacimenti, le Demoiselles vedono luce definitiva: le forme ricomposte con frammenti spezzati sono considerate il preannuncio della pittura moderna, agli albori del cubismo. In primo piano anguria, uva, mela e pera nel vassoio sembrano costituire un omaggio “protocubista” alla natura morta secentesca. Cinque donne nude, una sola seduta, sono il pretesto per una composizione che i disegni rinvenuti dopo la morte di Picasso confermano essere stata mutata più volte. Il telone sullo sfondo, come il fondale di un atelier, viene tirato da una figura il cui volto è segnato come le scarificature africane, alle quali Picasso si sarebbe ispirato dopo una visita, a quadro già iniziato, al museo etnografico parigino. Le forme spigolose in parte richiamano la semplificazione delle forme del più anziano Cézanne, e anche le statuette primitive dell’Africa occidentale, che iniziavano a destare l’interesse di Derain, De Vlaminck, Matisse. Oggi si tende a ritenere che Picasso si sia ispirato soprattutto alle cartoline etnografiche delle donne malinké del fotografo Edmond Fortier, che Picasso possedeva. Gli amici Apollinaire, Jacob e Salmon chiamano il quadro Il bordello filosofico, ma poi prevale il titolo oggi noto, ispirato al carrer d’Avinyó, strada delle prostitute di Barcellona ben nota a Picasso. Dalla Prima comunione è passato a descrivere un bordello.