che è uno strumento di carattere diacronico, volto cioè a disporre i suoi elementi in fila, uno di seguito
all’altro, è tenuto a spezzettare la splendida sincronia di cui invece gode il talento di un artista visivo, il quale può presentare in un insieme
organico tutte le sue maniere e scelte stilistiche, così abilitato a passare felicemente dalle une alle altre, quando addirittura non riesca a
incrociarle, a darcele in una completa sinossi. Pertanto per inseguire le varie procedure del nostro artista dobbiamo tornare indietro, al suo primo
cimentarsi nell’incisione, e anche a una sua tenace predilezione per gli specchi d’acqua, fossero essi di fiume o di mare. Nei suoi incessanti
soggiorni londinesi si sentiva soprattutto calamitato dalla vista del Tamigi, al punto di cercare dimore che avessero le finestre affacciate su quello
specchio d’acqua, ma ancor più sulla selva di alberature delle tante imbarcazioni che vi erano all’ormeggio. Ecco dunque, nel 1860, una incisione del
tutto rispondente a questa sua predilezione (Rotherhithe, New York, Metropolitan Museum of Art), assieme a tante altre varianti dello stesso
motivo. Il nostro artista era “seriale”, fecondo a livello di studi e abbozzi, mentre diveniva lento e circospetto nei dipinti. In fondo, comprendiamo
come, un decennio dopo, quelle medesime alberature e travature si sarebbero mutate negli strascichi delle code dei pavoni, a patto di lasciar cadere
l’aspetto ruvido, lavorativo, feriale, che spettava ai temi di quel filone per spostarsi invece verso i toni della favola. Ma si intravede il gesto
dell’artista che non vuole occupare lo spazio in misura pesante, che anzi squaderna, distende una specie di frasca a maglie rade, degna di una
taverna, in modo da non ostruire la visione, da non porsi di ostacolo. Whistler amava soprattutto il molo detto Wapping, cui infatti tra il 1860
e il 1861 dedica un dipinto a olio (Washington, National Gallery of Art) in cui in un angolo c’è lui stesso, con accanto una prima apparizione della
ninfa egeria di quegli anni, la rossa Jo Hiffernan, ma i due, e una terza presenza, non intendono affatto ingombrare la visione, anzi, se ne stanno di
lato, per dare pieno spazio alle “trine e merletti” di una selva di imbarcazioni con relativi alberi e scialuppe accostate, e così determinando una
specie di selva di rami secchi che solca, riga, come fosse un cristallo da infrangere, una calma distesa di acque, magari già pronte a emettere una
loro sinfonia, cromatica o sonora che sia. Oltre agli spunti portuali il nostro artista è pronto a cogliere altre suggestioni, purché si tratti
comunque di vedute tramate di vuoto, dove gli elementi in muratura o in legno siano appena come i bastoncini del gioco “shangai” che si aprono a
fascio, ma con occupazione leggera, tremolante, in equilibrio precario.
