Giuseppe morbidelli

Presidente Banca CR Firenze

La mostra cui Banca Cassa di Risparmio di Firenze ha il piacere e l’onore di contribuire tocca, anzi investe in pieno, un tema oltremodo sensibile nella storiografia, nella critica letteraria e artistica, nella pubblicistica e anche nei dibattiti “non professionali”, qual è quello del rapporto tra arti e fascismo, tanto più nel periodo del consenso, ovvero di massimo fulgore e nel contempo di massima pervasività del regime. Che in tale periodo le arti abbiano raggiunto momenti di grande splendore, è dimostrato per fatto concludente dalle opere che qui vengono esposte ed evocate, frutto del genio, della passione, dell’impegno di personaggi la cui collocazione nel novero degli artisti è del tutto acclarata. Sono note le tesi che ravvisano nelle espressioni culturali dell’epoca i segni dell’adesione al fascismo, più o meno convinta o consapevole. Ma a parte il fatto che le generalizzazioni, di per sé, non sono metodologicamente corrette, credo che si debba sottoscrivere quanto ebbe a osservare Bobbio: «durante il fascismo, quando c’è stata cultura non è stata fascista, e quando è stata fascista non è stata cultura»1. Il che significa che occorre valutare le opere dell’epoca nella loro consistenza ontologica, a prescindere da ogni riserva connessa a influenze ambientali o scopi non genuini. Si tratta, questo, di un criterio ormai pressoché universalmente accettato e acquisito: che poi il fiorire di tutte le “egregie cose” di cui la mostra di Palazzo Strozzi è un significativo campionario derivi dalla presenza di uno spazio culturale non occupato dalla fascistizzazione o anzi appositamente lasciato libero o dalla presenza di aree di agnosticismo o dal fatto che, come ha rilevato recentemente Cassese2, lo Stato fascista fu da un lato intriso della elasticità delle strutture prefasciste e dall’altro fu capace di politiche di modernizzazione (il che reagì positivamente sulla cultura) o da altre ragioni ancora, non rileva in questa sede. Quello che importa mettere in luce è che negli anni ’30 non solo la tensione culturale non venne meno, ma anzi raggiunse livelli di eccellenza anche in una lettura comparativa con ciò che avveniva negli altri Paesi. La mostra, specie con riguardo a ciò che avveniva a Firenze, mette altresì in evidenza le sinergie dell’epoca tra arti visive, poesia (e letteratura in genere) e musica. Ed invero Firenze era in quegli anni una vera fucina culturale, che andava ben al di là delle arti visive: si pensi al forte radicamento e alla intensa attività di tante case editrici (quali Le Monnier, Sansoni, Vallecchi, Barbera, Bemporad, Salani, Olschky, Nerbini) e al sorgere e al fiorire di tante riviste quali: “Letteratura” di Bonsanti, “La riforma letteraria” di Alberto Carocci e Giacomo Noventa, “Pegaso” di Ugo Ojetti, “Prospettive” di Curzio Malaparte, “Frontespizio” di Piero Bargellini, “Campo di Marte” di Alfonso Gatto e Vasco Pratolini, “Principi” di La Pira, “Argomenti” ancora di Alberto Carocci (e Raffaello Ramat), “Civiltà moderna”, fondata da Codignola nel 1929, “La Nuova Italia” di Ernesto Codignola e Luigi Russo (del 1930), per non dire di “Solaria” (fondata nel 1926 sempre da Carocci), attorno a cui si formarono tra l’altro Montale, Ginzburg, Garosci, Bacchelli. Né si può dimenticare la presenza della Crusca, che costituì un punto di incontro di studiosi quali Giorgio Pasquali, Luigi Foscolo Benedetto, Mario Casella, Michele Barbi, o il ruolo di aggregazione culturale svolto da studiosi quali Manara Valgimigli, Giacomo Devoto e Bruno Migliorini nei settori della filologia classica e della glottologia. Scrivendo questa nota introduttiva quale rappresentante di un istituto di credito, non posso però non ricordare come l’esprit culturale di quegli anni fosse a 360 gradi, come dimostrano, per esempio, “i ragazzi di via Panisperna” con Fermi e Majorana in testa, o i successi dell’industria aeronautica, automobilistica e navale, che si compendiavano nei voli transoceanici, nei primati dell’Alfa Romeo, nel nastro azzurro del Rex, ma anche come dimostra la visione oltremodo lungimirante dei processi economici che ebbe a inverarsi in una serie di misure incisive quanto innovative. Basti pensare alla legge istitutiva dell’IMI o ancor più a quella istitutiva dell’IRI, nato come istituto per il salvataggio delle imprese in crisi, e divenuto poi un istituto per la politica industriale che costituì un modello anche per il New Deal, o alla legge bancaria del 1936, che nel separare prestiti a breve e prestiti industriali risolse i problemi del finanziamento delle industrie in assenza di un adeguato mercato finanziario, e soprattutto introdusse una disciplina di forte tutela del risparmio. Anche questi dati istituzionali, che a prima vista, soprattutto a fronte di tante espressioni di vitalità artistica, possono sembrare aridi (anche se la pubblicazione - proprio di quegli anni - dell’Inventario della casa di campagna del grande giurista Piero Calamandrei dimostra la contiguità tra diritto e belle lettere), non solo danno la “temperatura” (per usare una espressione dei curatori della mostra) del clima dell’epoca “oltre il fascismo”, ma rivelano il loro ruolo di ponte verso la cultura istituzionale del dopoguerra, tanto che la stessa Costituzione ebbe a riprendere principi della legislazione più sopra ricordati, quali la funzione sociale della proprietà, l’economia mista, la previdenza sociale e la tutela del risparmio, quella tutela che per l’appunto costituisce all’untempo l’anima e lo scopo delle Casse di Risparmio, come si deve aver presente anche (e soprattutto) in tempi di e-banking, di finanza innovativa, di “derivati”.