Introduzione

Antonello Negri

La Donna al sole di Martini, il Figliol prodigo di Savinio e le Zingare di Campigli, la Piovra di Scipione e i Buoi di Viani, l’Amaca di Carena e il Montale di Peyron, i Giovani in riva al mare di Gentilini e la Statua naufragata di Nathan, lo Schermidore di Del Bon e i Giocatori di polo di Birolli, oltre a dipinti e sculture astratte di Fontana, Ghiringhelli e Radice, ritornano a Palazzo Strozzi dopo esserci già stati nella primavera del 1967; li presentava allora Carlo Ludovico Ragghianti in Arte moderna in Italia 1915-1935, una mostra che fece storia. Con le sue duemilacentotto opere di duecentoquaranta autori, fu una grande mostra in tutti i sensi. È doveroso ricordarla perché - pur con una limitata sovrapposizione cronologica - di questi Anni Trenta costituisce un precedente di speciale importanza: dopo gli strascichi polemici di un lungo dopoguerra, fu infatti il primo fondato tentativo di leggere secondo «una reale prospettiva storica» un passaggio quanto meno complicato, e controverso, dell’arte italiana del XX secolo. In quell’occasione Ragghianti lamentava, relativamente alla conoscenza di quegli anni, le «sproporzioni tra gli ampi documenti delle scelte ufficiali e la rarefazione o l’assenza di documenti contemporanei relativi persino alle maggiori personalità»1. A distanza di quasi mezzo secolo, la prospettiva sembra quasi capovolta e la conoscenza profonda non solo delle maggiori personalità ma di comprimarî e minori si è ampliata esponenzialmente, forse anche per quegli interessi mercantili e collezionistici che lo stesso Ragghianti considerava perturbanti di una lettura storica dei fenomeni artistici in grado di delineare scale di valori davvero corrispondenti alla qualità degli autori e della loro produzione. Che è poi il principio che ha guidato le sue scelte, in coerenza con un crocianesimo di fondo tradottosi, nella mostra del 1967, in un’esemplare antologia di opere di arte “pura”, dove anche i dipinti di Sironi e le sculture di Martini - gli artisti “primi” del fascismo - si potevano guardare, giustamente, come modelli tra i più alti dei raggiungimenti dell’arte italiana a cavallo del 1930. L’idea di Ragghianti per il periodo in questione - ugualmente condivisibile - era che la qualità delle opere, al di là delle pressioni ideologiche o delle scelte ideologiche degli artisti stessi, alla fi ne la  vincesse e dovesse essere considerata come l’unico spartiacque possibile, indipendentemente da «mitografie» dettate da programmi o poetiche predeterminate2; la riduzione della concreta produzione artistica a teorie e intenzioni, infatti, comporterebbe «un livellamento che evita il problema dei problemi della ricerca critica, quello dell’individuazione specifica di ogni fare nei suoi moventi e nelle sue ragioni concretato in linguaggio formale, sostituendovi generalità arbitrarie e astratte»3 .

Il fine ultimo dell’indagine dello storico - che «non è né un possessore di verità né un giudice né un direttore di coscienze»4 - è la «comprensione effettiva del reale» attraverso l’individuazione e la conoscenza, nonché la descrizione e l’analisi critica, degli specifici oggetti del suo interesse; e il suo modo di procedere deve seguire il principio di «sostituire a idola, schemi, convenzioni d’ogni provenienza e stratificazione, e prima di tutto e soprattutto all’ignoranza, una ricostruzione problematica che apra e susciti obbiettive possibilità del capire e del distinguere»5.