Il concetto di “capitale sociale” è stato coniato nel 1916 dal sociologo Lyda Judson Hanifan in riferimento alla ricchezza apportata dai collegamenti
con una vasta comunità, non solo a livello individuale, ma per il gruppo intero. L’idea è stata accolta con rinnovato entusiasmo nel 2000, quando il
professore Robert D. Putam pubblicò il libro Capitale sociale e individualismo (ed. it. 2004), e poi sostenuta da importanti promotori come Bill
Clinton, George W. Bush e la Banca mondiale.
Lavorare insieme
L’economista della Banca mondiale Michael Woolcock distingue tre tipi di capitale sociale:
1 Bonding (esclusivo). Esiste tra persone simili, come la famiglia, gli
amici o i vicini.
2 Bridging (inclusivo). Analogo al concetto di “legami deboli” (vedi pp.
172- 173), è quello che esiste tra persone simili, ma non propriamente intime, come conoscenti o ex colleghi.
3 Linking. Si basa sull’idea di mettere in contatto persone che si trovano
in situazioni diverse e non si conoscono per condividere le risorse della comunità.
Lo scenario ideale consiste in un mix di tutte e tre le tipologie. Il capitale sociale esclusivo non solo è solidale e reciproco, ma secondo le
ricerche pure più affidabile. Se coltivato da solo, però, può indurre un meccanismo di “noi contro di voi”. Quello inclusivo ci permette invece di
colmare le lacune delle nostre risorse purché se ne faccia buon uso - per esempio se ci scambiamo informazioni invece di parlare tanto per fare. Il
terzo tipo (linking) ci fa entrare in contatto con idee nuove, incoraggiandoci a essere generosi e aperti. Combinare tutti e tre ci assicura una rete
di supporto stabile e un più ampio senso di appartenenza.
Essere artefici del proprio successo vuol dire creare un capitale sociale solido e diversificato.