15. COMPLICANZE NEUROLOGICHE

GIANCARLO COMI • FRANCESCA CASO • CLAUDIA ARCARI • MONICA FALAUTANO • GIUSEPPE MAGNANI

La sindrome di Down (SD) è la patologia genetica da aberrazione cromosomica più comunemente osservata nella pratica clinica e determina negli individui affetti una serie di complicanze nei vari sistemi dell’organismo. In questa sezione ci occuperemo in particolare delle complicanze neurologiche che si possono osservare nella sD dalle più frequenti, quali la demenza Alzheimer-like e l’epilessia, alle meno comuni, quali la mielopatia da instabilità atlanto-assiale oltre che dell’associazione osservata tra questa sindome ed un’ampia gamma di patologie neurologiche, dalla Moyamoya alla sindrome di Gilles De La Tourette.


Sindrome di down e demenza

La prevalenza della demenza di Alzheimer (AD= Alzheimer’s Disease) nei pazienti con SD aumenta con l’avanzare dell’età, attestandosi intorno a valori pari all’8% tra i 35 e 49 anni, al 55% tra i 50-59 anni ed al 75% dopo i 60 anni di età (1). In uno studio del 2001 condotto su 285 pazienti con DS è stata riscontrata una prevalenza della demenza di circa il 13% e con un’età media di esordio intorno ai 54,7 anni d’età (2). Sembra inoltre che un miglior livello di funzionalità cognitiva sia associato ad un più basso riscontro di demenza sottolineando il fatto che fattori ambientali, come il livello di scolarizzazione e le attività svolte, possono essere utili nel ritardare l’esordio del decadimento cognitivo (3).

Benché le alterazioni anatomo-patologiche tipiche dell’AD (placche neuritiche extracellulari di P-proteina o P amiloide ed ammassi intracellulari neurofibrillari) siano state riscontrate nel cervello di soggetti con DS di età superiore ai 32 anni, tuttavia non tutti sviluppano una demenza.

Nell’AD vi è un accumulo anomalo e progressivo di P-amiloide (peptide di 40-42 aminoacidi che per le sue caratteristiche chimico-fisiche tende ad aggregare spontaneamente in fibre di amiloide) proporzionalmente alla sua gravità. La P-amiloide è il fisiologico prodotto metabolico di un precursore, una glicoproteina transmembrana denominata App (Amyloid Precursor Protein), particolarmente espressa nei neuroni, il cui gene è localizzato nel cromosoma 21. La P-amiloide deriva dall’azione sull’APP di due proteasi intracellulari, chiamate P- e y- secretasi, con conseguente formazione di due frammenti di P-amiloide da 40 e 42 aminoacidi (AP40 e AP42 peptide, rispettivamente). Le due varianti sono secrete all’esterno degli spazi extracellulari e si ritrovano a basse concentrazioni ed in forma solubile nei fluidi biologici (plasma e liquor) in condizioni fisiologiche. Al contrario, nel cervello di soggetti normali la P-amiloide è completamente assente e ciò dipenderebbe da meccanismi fisiologici, non ancora del tutto noti, che consentono la rapida eliminazione della molecola tossica dagli spazi cerebrali extracellulari. secondo l’ipotesi amiloidogenica, per effetto di un’aumentata produzione o di un diminuito smaltimento, la concentrazione di P-amiloide aumenta progressivamente fino a raggiungere una concentrazione critica di polimerizzazione (4). Tale stato di polimerizzazione con successiva organizzazione dell’amiloide in placche neuritiche innesca nei neuroni uno “stress ossidativo”, che induce una degenerazione accompagnata da alterazioni del citoscheletro e termina con la morte neuronale.

In particolare nei soggetti con SD c’è un’aumentata produzione di P-amiloide totale per il sovradosaggio del gene dell’APP che è situato sul cromosoma 21 che è triplicato nella SD. Sempre sul cromosoma 21 è stato identificato un gene che codifica l’enzima che agisce sul sito di clivaggio P dell’APP (detto BACE2= P-site of APP clearing enzyme) e che quindi contribuisce all’accumulo di P-amiloide. Alterazioni nell’espressione di BACE2 sono state indagate con tecniche di immunoistochimica nella corteccia frontale dei soggetti con SD: è stata riscontrata la presenza di BAcE2 nelle inclusioni fibrillari intraneuronali di cervelli di soggetti anziani con neuropatologia AD-like ma non in quelli di soggetti con SD privi di alterazioni anatomo-patologiche AD-like o di controlli sani. Ciò supporta l’ipotesi che elevati livelli di BACE2 si correlino all’insorgenza di un pattern neuropatologico AD-like nella SD (5). Recentemente è stata riscontrata un’associazione tra il polimorfismo metionina/metio-nina (M/M) al codone 129 del gene per la proteina prionica ed il decadimento cognitivo in individui anziani (6). In aggiunta è stato documentato un declino significativamente più veloce delle capacità intellettive di soggetti con SD che presentano nel codone 129 almeno un allele “valina” rispetto a quelli con polimorfismo M/M, ed un ulteriore effetto deleterio è esercitato dall’eventuale presenza nel genotipo degli individui analizzati dell’isoforma e4 dell’ApoE (7).

Dal punto di vista anatomo-patologico nei soggetti con SD P-peptidi solubili, che risultano dalla processazione dell’APP, sono rilevabili nel cervello decenni prima della deposizione extracellulare in placche neuritiche. inizialmente si osserva un’aumentata immunoreattività per APP e AP43 nei neuroni e poi dai 32 anni di età compare l’immunoreattività per AP43 e AP42 in placche diffuse. L’APP e AP43 sono caratteristicamente osservati negli assoni attorno alle placche senili e infine l’immunoreattività per l’AP40 è rilevata nel “core” delle placche senili. Questa progressione nell’espressione immunoreattiva potrebbe essere correlata al processo patogenetico della demenza AD-like che si osserva nella SD, per cui il danno assonale nelle placche senili potrebbe condurre alla formazione di aggregati neurofibrillari o alla morte neuronale attraverso alterazioni del flusso assonale ed accumulo di AP43 nei neuroni corticali (8). Inoltre i livelli plasmatici di AP42 sono aumentati nei soggetti con SD anziani ma non nei giovani (9). Questi peptidi solubili si accumulano all’interno dei neuroni e possono essere secreti extracellularmente. L’endocitosi ha un ruolo fondamentale nella patogenesi dell’AD. Gli endosomi, uno dei maggiori siti di generazione degli AP-peptidi, sono marcatamente aumentati di volume nei neuroni dei soggetti con AD, suggerendo un’alterazione del funzionamento del pathway endocitico (EP=Endocytic Pathway). Queste anormalità sono state riscontrate nei neuroni piramidali della neocorteccia quando la neuropatologia AD-like, cosi’ come la deposizione di P-amiloide, sono ristrette alla regione entorinale. Nella SD gli endosomi sono significativamente aumentati di volume in alcuni neuroni piramidali fin dalla 28 settimana di gestazione, decadi prima del classico sviluppo neuropatologico AD-like. La presenza dell’isoforma e4 dell’ApolipoproteinaE (proteina prodotta dalla glia e coinvolta nella clearance del P-peptide), determinava un’ulteriore accentuazione dell’allargamento endosomiale a stadi pre-clinici dell’AD. All’opposto il riscontro di endosomi di taglia normale in stadi avanzati di AD familiare causato da mutazioni della Presenilina 1 o 2, indicava che l’alterazione dell’endocitosi non è una conseguenza della deposizione di P-amiloide. Tali risultati evidenziano che l’attivazione dell’EP è uno dei più precoci cambiamenti intraneu-ronali che avvengono nell’AD sporadico, e che potrebbe avere un ruolo importante nella deposizione di P-amiloide (10). Si è poi dimostrato che in soggetti con SD di età superiore ai 50 anni non c’era una continua tendenza all’accumulo di P-amiloide, come se il carico lesionale aumentasse fino a raggiungere un plateau. inoltre nel cervello dei pazienti con DS con l’isoforma e4 dell’ApolipoproteinaE si rilevava più del doppio del quantitativo di amiloide rispetto ad individui con differenti varianti alleliche (11).

Come già accennato prima, l’apolipoproteina E è una lipoproteina presente nel cervello, prodotta dalle cellule gliali e coinvolta nella clearance della P-proteina ma anche nella riparazione della membrana neuronale. Esiste in tre differenti varianti alleliche (e2, e3 e e4), in particolare l’allele e4 si correla ad un rischio aumentato di AD e, al contrario, l’allele e2 avrebbe un ruolo protettivo nei confronti della malattia (12).

Circa la presentazione clinica della demenza nei soggetti con SD non poche sono le difficoltà diagnostiche, in quanto spesso i sintomi possono essere atipici o misconosciuti per il quadro di deficit cognitivo pre-esistente. Si parla in questo caso di “mascheramento psicosociale”, riferendosi alle abilità sociali non maturate ed alle mancate esperienze di vita di un soggetto con SD, che spesso non è in grado di spiegare verbalmente i propri sintomi per difficoltà di comunicazione, per cui sono spesso più informativi i loro caregiver. Per “penombra diagnostica” (“diagnostic overshadowing” secondo Reiss) (14) si intende l’attribuzione di cambiamenti nel comportamento o nelle abilità sociali alle difficoltà di apprendimento pre-esistenti nell’individuo con SD o ad un disordine di tipo psichiatrico.

All’esordio della demenza i sintomi possono manifestarsi con difficoltà di memoria, apprendimento e orientamento, che nel soggetto con SD si traducono in una maggiore dipendenza di questi dal caregiver (15). Soprattutto in soggetti giovani (30-49 anni) è stata riscontrata una variante frontale, con precoci cambiamenti nel comportamento e nella personalità spesso su un quadro pre-esistente di ritardo mentale moderato-severo, anche se sono necessari ulteriori studi per una sua corretta definizione (16). È stato documentato che nei soggetti con SD/AD, rispetto ai soggetti con AD, c’è una maggiore prevalenza di disturbi affettivo-comportamentali, percettivi (allucinazioni), alterazioni del ritmo sonno/veglia, atteggiamento oppositivo (17). Accanto alla valutazione dell’assetto cognitivo del soggetto è importante valutare anche quello non cognitivo. infatti sono spesso gli aspetti comportamentali i primi segni di demenza in soggetti con ritardo mentale, determinanti un declino nelle capacità di adattamento e nella vita sociale dell’individuo.

I sintomi della demenza nella SD possono essere così schematizzati:

- Cognitivi: deficit della memoria per eventi recenti (successivamente anche per eventi passati). Deficit orientamento spaziale. Perdita delle capacità di linguaggio precedentemente apprese, confusione.

- Affettivi: deflessione dell’umore. Insonnia/ipersonnia. Ridotta concentrazione. Aggressività/irritabilità. Ansia/paura. Apatia.

- Comportamentali: aumentata dipendenza. Isolamento sociale. Eccessiva iperattività/fati-cabilità. Mancanza di collaborazione. cambiamenti nella personalità.

- Percettivi: allucinazioni (in tutte le modalità sensoriali).

- Neurologici: disfasia evolvente fino all’afasia. Agnosia. Aprassia. Disturbi nel cammino. Epilessia. Mioclono. incontinenza urinaria. Distonia. perdita dell’autonomia motoria. Segni extrapiramidali.

La diagnosi di demenza in un individuo di norma è fatta usando i criteri ICD-10 (WHO, 1993) (18), DSM-IV-TR (American Psychiatric Association, 2000) (19) o DC-LD (Royal College of Psychiatrists, 2001) (20). Successivamente i soggetti identificati come dementi possono essere valutati secondo i criteri NINCDS-ADRDA (McKhann et al., 1984) (21) per la malattia di Alzheimer, i criteri NINDS-AIREN (Roman et al., 1993) (22) per la demenza vascolare, i criteri per la Demenza a Corpi di Lewy (McKeith et al., 2005) (23) e infine quelli per la Demenza Fronto-temporale (McKhann et al., 2001) (24), allo scopo di identificare il tipo di demenza da cui sono affetti.

Nel caso dei pazienti con ritardo mentale e nel caso specifico dei soggetti con SD il problema della diagnosi di demenza è più complesso. Innanzitutto bisogna ricordare che c’è un tasso di declino cognitivo legato all’invecchiamento precoce cui va incontro la popolazione Down. In particolare il linguaggio, la memoria a breve termine ed il ragionamento non verbale sono generalmente più resistenti mentre si osserva un lieve deterioramento della memoria verbale e a lungo termine per i soggetti con SD di età superiore ai 50 anni, così come della capacità di consolidare in memoria nuove informazioni verbali o apprendere dati visuo-spaziali. È quindi importante differenziare un declino cognitivo età-correlato da una demenza all’esordio.

In generale, individui con ritardo mentale spesso manifestano un decadimento cognitivo con un peggioramento della memoria, difficoltà nel linguaggio sul versante espressivo/ricettivo e disturbi nelle funzioni esecutive. A differenza di quanto avviene nella popolazione normale, escluse cause d’alterazione transitoria od acuta delle capacità cognitive, documentare un coinvolgimento polifunzionale delle funzioni superiori non avvalora di per sé una diagnosi di demenza perché la condizione di ritardo mentale é sottesa dalla parziale maturazione ed acquisizione di più competenze cognitive. Per potere quindi porre diagnosi di declino cognitivo di natura dementigena è pertanto indispensabile riferirsi alla condizione di base del soggetto, acquisendo le informazioni relative ad eventuali valutazioni cognitive eseguite in passato durante il percorso scolastico ed educativo o per scopi d’ordine medico-legale, e su questi dati accertare la presenza di un’involuzione funzionale. inoltre è necessario rivalutare il soggetto nel tempo al fine d’osservare l’andamento del profilo cognitivo.

Le difficoltà principali nella diagnosi di demenza in soggetti con SD sono le seguenti:

1) I test neuropsicologici utilizzati per valutare l’efficienza dei diversi domini cognitivi sono quasi esclusivamente tarati e standardizzati su un campione di riferimento normativo di soggetti con uno sviluppo cognitivo nella norma e strutturati in modo da individuare un cut off di soglia patologica (generalmente coincidente con il 5° percentile) sotto il quale perdono di sensibilità nel cogliere, misurare e classificare sul piano clinico minime variazioni di performance (effetto pavimento).

2) Molti soggetti della popolazione contemporanea di SD adulti e anziani, non sono mai stati formalmente valutati con test cognitivi o scale d’intelligenza per cui non è possibile disporre di dati di baseline specifici del soggetto cui riferirsi per avere indicazioni dell’andamento evolutivo del quadro cognitivo.

3) Diventa pertanto particolarmente delicata e cruciale la raccolta dell’anamnesi recente circa cambiamenti a carico delle competenze comportamentali e cognitive, delle attitudini relazionali e delle capacità di regolazione emotiva che necessariamente, per i limiti d’attendibilità ed esaustività dei self report dei soggetti stessi, dovrebbe essere condotta con le figure di riferimento caregivers. Certamente i limiti d’attendibilità e completezza dei dati raccolti in modo informale in un colloquio clinico o attraverso strumenti semistrutturati, quali scale e questionari, concernono la soggettività dell’osservatore, la sua sensibilità nel cogliere e quantificare i cambiamenti d’interesse. inoltre, nel corso dell’età adulta, possono cambiare i soggetti di riferimento caregivers, prima generalmente rappresentate da genitori e poi da fratelli o parenti prossimi.

Per strutturare la raccolta anamnestica coi caregivers ed ottenere indici metrici correlabili longitudinalmente è opportuno l’utilizzo di scale o questionari.

Per quanto concerne l’approfondimento del grado d’autonomia nella gestione e conduzione delle attività della vita quotidiana, particolarmente interessanti risultano le seguenti scale:

1) RDRS (Rapid Disablity Rating Scale) (25) che esplora in modo sommario sia la necessità d’assistenza per alimentarsi, deambulare, muoversi, lavarsi, vestirsi, andare in bagno, tenersi in ordine, svolgere attività quotidiane quali telefonare, maneggiare denaro sia la presenza di disabilità di comunicazione, udito, vista, la necessità di attenersi a diete specifiche, l’allettamento diurno, problemi d’incontinenza, assunzione di terapie nonché la presenza di problemi particolari quali confusione mentale, non cooperazione o depressione. ogni item prevede quattro punteggi (no, un po’, abbastanza, completamente) e la scala va da 0 = nessuna disabilità a 72 = massima disabilità.

2) DAD (Disability Assessment for Dementia) (26) è invece caratteristica perchè, in relazione alle attività primarie e strumentali della vita quotidiana approfondite in modo analitico, distingue gli aspetti d’iniziativa personale da quelli di pianificazione ed organizzazione preliminare delle attività e dall’effettiva realizzazione della stessa. in questo modo è possibile cogliere modificazioni del grado d’autonomia connesse ad aspetti motivazionali o di problematizzazione circa l’opportunità d’eseguire una certa attività da variabili di natura esecutiva o disprasssica.

Esistono poi scale specifiche, ideate per la valutazione cognitivo-comportamentale del decadimento cognitivo in pazienti con ritardo mentale, da compilare coi caregivers. Tra le più usate ci sono il “Dementia Questionnaire for Mentally Retarded Persons” (DMR; Evenhuis, 1996) (27) e il Dementia Scale for Down’s Syndrome (DSDS; Gedye, 1995) (28).

Nel DMR si pongono 50 domande suddivise in 8 categorie cui il caregiver può rispondere, riferendosi ai comportamenti osservati approssimativamente negli ultimi due mesi, “normalmente si” (0), “qualche volta” (1), “normalmente no” (2). I punteggi alle domande delle categorie “memoria a BT”, “memoria a LT”, “orientamento spaziale e temporale” sono sommati per ottenere un punteggio cognitivo unico (SCS= sum of cognitive scores). Analogamente i punteggi alle voci “linguaggio”, “abilità pratiche”, “umore”, “attività e interessi”, “disturbi del comportamento” sono sommati per ottenere un indice finale delle capacità sociali del soggetto (SOS=sum of social score). Sono stati naturalmente stabiliti differenti cut-off per la diagnosi di demenza in base al grado di ritardo mentale pre-esistente. È importante la somministrazione longitudinale nel tempo di questo test che può spesso dar luogo a falsi positivi in soggetti con rilevanti disturbi del comportamento.

Nel DSDS (Dementia Scale for Down’s Sindrome. Gedye, 1995 (28) invece sono poste 60 domande a due caregivers suddivise ugualmente in 3 categorie: “stadio iniziale”-“stadio intermedio”-“stadio avanzato” di demenza. L’intervistatore parte con le domande relative allo stadio iniziale della demenza, alle quali il caregiver può rispondere: “presente”, “assente”, “non valutabile”, “tipico per quel soggetto”. Se l’intervistato dà una delle ultime tre risposte, queste non vengono calcolate nel punteggio finale. Nell’intervista si inizia con le domande relative alla categoria “stadio iniziale” ma se non viene raggiunto un punteggio finale minimo non si continua con le domande delle altre due categorie e allo stesso modo se un punteggio limite non è raggiunto alle domande relative allo “stadio intermedio” l’intervistatore non prosegue alla categoria “stadio avanzato”. Con questo test, quindi, viene fatta una distinzione tra comportamenti sviluppati e comportamenti pre-esistenti in una persona con ritardo mentale e nel caso in cui si faccia diagnosi di demenza se ne stabilisce lo stadio (iniziale-intermedio-finale). È un test con una buona specificità ma con scarsa sensibilità.

Esistono nella tradizione anglo-americana, alcuni test selezionati per essere direttamente somministrati al paziente con ritardo mentale (29) tra cui il TSI (Test for Severe Impairment), che valuta varie funzioni cognitive, ed il Down’s Syndrome Mental Status Examination (DSMSE), una sorta di MMSE (mini mental status examination) modificato. Per una corretta esecuzione di questi test è comunque necessario un certo grado d’abilità prassica, gnosica

e linguistica e di conseguenza questi strumenti sono utilizzabili per valutare la presenza di demenza in pazienti con ritardo mentale lieve-moderato mentre la loro validità è dubbia per individui con ritardo mentale severo.

Molti dei test sopracitati non sono stati tarati e validati sulla popolazione italiana e pertanto nello scoring bisogna riferirsi ai campioni normativi originali. È però preferibile, qualora disponibili, utilizzare strumenti validati in Italia sia perché costruiti pesando aspetti d’ordine culturale e socio-demografico nella formulazione delle domande e nello scoring sia perché la loro larga diffusione garantisce una maggiore esperienza del clinico nella lettura ed interpretazione del significato dei risultati.

una valutazione neuropsicologica, oltre a prevedere una raccolta anamnestica esaustiva ed indicazioni sul funzionamento adattivo, dovrebbe indagare l’efficienza funzionale di tutti i domini cognitivi.

Come anticipato è suggeribile disporre di un indice dell’efficienza cognitiva globale di base, quale il QI misurato con le scale di Wechesler (WISC, WAIS), meglio se misurato nella prima età adulta tra i 18 e i 25 anni. In assenza di questi dati premorbosi, qualora sia presente un sovrapposto processo di decadimento mentale, i risultati conseguiti alle scale intellettive certamente risentono della parziale perdita di competenze preesistenti e non sono pertanto da considerarsi una misura del QI di base. La scelta di somministrarle comunque si fonda sulla struttura dei compiti delle scale che le rendono un valido strumento di valutazione analitica delle capacità verbali e non verbali e d’osservazione delle aree di risorsa o vulnerabilità cognitiva.

L’indagine delle varie operazioni cognitive viene eseguita attraverso test neuropsicologici specifici; la scelta di quali prove proporre deve essere orientata secondo i criteri di semplicità delle consegne, relativa brevità del tempo d’esecuzione ed in modo da limitare l’interferenza di difficoltà linguistiche recettive ed espressive.

Le capacità linguistiche espressive vengono valutate sia attraverso l’osservazione dell’eloquio spontaneo, negli aspetti legati all’articolazione e prosodia, fluidità verbale, appropria-tezza lessicale, costruzione sintattico-grammaticale e adeguatezza dei contenuti rispetto al contesto e al piano della conversazione, sia attraverso compiti di ricerca lessicale secondo categorie semantiche o in compiti di denominazione. La componente linguistica recettiva viene esaminata sia informalmente nell’interazione linguistica sia con il Token Test che richiede la manipolazione di alcuni gettoni, (di due forme, cinque colori e due grandezze) secondo istruzioni di variabile complessità per lunghezza e contenuto. per quanto concerne le risorse attentive sono da indagare l’eventuale presenza di rallentamento psico e/o motorio d’inerzia cognitiva, limiti alla velocità esecutiva, la capacità del paziente di mantenersi orientato al compito e di inibire risposte automatiche attivate da stimoli ambientali o endogeni non pertinenti, di rimanere concentrato per un tempo protratto (attenzione sostenuta) e di cogliere in modo rapido ed accurato gli stimoli salienti di una condizione stimolo tra altri irrilevanti (attenzione selettiva). Il test più comunemente utilizzato ad indice dell’efficienza attentiva selettiva e della velocità esecutiva sono le “Matrici numeriche” che, premettendo capacità di discriminazione dei numeri e normale acuità visiva, prevedono la siglatura in un tempo massimo di alcuni stimoli numerici target posti tra altri distrattori. per quanto concerne la componente mnestica sarebbe auspicabile misurare sia la capacità del magazzino mnestico a breve termine (test Span di cifre), indice dell’efficienza della working memory generalmente molto limitata nel ritardo mentale, sia la possibilità di recuperare informazioni dalla memoria a lungo termine (retrograda) di tipo semantico, episodico ed autobiografico sia di apprendere e recuperare nuove informazioni (memoria anterograda). Il test più indicato, in pazienti con ritardo mentale, per la valutazione della memoria a lungo termine è il “Test di Memoria Comportamentale di Rivermead”, perché oltre a stimare le risorse di memorizzazione e rievocazione di materiale verbale spesso limitate dalle disabilità linguistiche di base, prevede anche l’approfondimento delle capacità d’apprendimenti di tipo non dichiarativo e comportamentale; infatti, oltre alle domande relative all’orientamento spazio-temporale e personale, alla richiesta di semplici informazioni culturali (es: nome presidente della Repubblica) e all’apprendimento di un breve racconto rievocato sia immediatamente dopo la lettura sia a distanza di minuti, si osserva la capacità di memorizzare e ricordare a distanza di tempo il nome e cognome di una persona mostrata in una fotografia, di immagazzinare e recuperare secondo un processo di riconoscimento oggetti o volti nuovi, di apprendere sequenze comportamentali, di ricordare al momento opportuno di fare una certa attività (come chiedere l’appuntamento quando suona la sveglia).

Le abilità visuo-costruttive sono generalmente piuttosto povere nei pazienti con sD; una prova utilizzabile per misurarle è il “test di copia di elementi geometrici con o senza elementi di programmazione” perché permette di distinguere nell’esecuzione grafica della copia di semplici modelli geometrici difficoltà legate alla pianificazione, all’esecuzione e alla coordinazione visuo-motoria.

in ultimo, l’operatività del dominio logico-astratto nelle sue funzioni d’astrazione, categorizzazione, anticipazione, inferenza è indagabile con le “Matrici progressive di Raven forma colore” appositamente ideate per limitare la rilevanza di variabili legate alle competenze verbali o conoscenze acquisite in modo formale nella misura delle facoltà logiche.

Quando comunque ci si orienta verso un sospetto di demenza in un soggetto con SD è di fondamentale importanza la diagnosi differenziale tra un’ampia gamma di condizioni patologiche che possono determinare uno scadimento delle performance cognitive, tra le quali le principali ricordiamo l’ipotiroidismo, i deficit sensoriali, la depressione o altre patologie psichiatriche, l’apnea ostruttiva, il decadimento cognitivo iatrogeno (es. da anticolinergici), le epatopatie croniche o altre patologie internistiche determinanti squilibrio metabolico, i quadri carenziali (ad es. deficit di folati iatrogeno da antiepilettici), le infezioni o l’abuso di sostanze.

oltre quindi alla valutazione clinica è importante seguire anche un iter diagnostico strumentale adeguato eseguendo esami emato-urinari di routine (fra cui screening della funzionalità tiroidea, epatica, renale, dosaggio vitamina B12 e folati), ECG, RX torace, visita oculistica,visita ORL, TC/RMN encefalo, PET/SPECT cerebrale ed altre tecniche di neuroimaging (fMRI,VBM).

Nella fase pre-clinica della demenza in soggetti con SD è stata riscontrata attraverso immagini RMN una progressiva riduzione volumetrica del lobo temporale mediale, in particolare di amigdala e ippocampo, con l’avanzare dell’età, che si correlava positivamente alla misurazione clinica della funzione mnesica (30). Di contro Pinter et al (2001) (31) hanno messo a confronto un gruppo di bambini con SD con un gruppo di controllo, usando una RMN encefalo ad alta risoluzione con riscontro di un volume ippocampale significativamente più ridotto nei Down rispetto ai controlli, suggerendo quindi che la riduzione di volume ippocampale osservata nei soggetti Down adulti sia da imputare più a precoci differenze di sviluppo che a processi neurodegenerativi.

In un recente studio Haier et al. (2003) (32) hanno sottoposto a PET cerebrale 44 soggetti, di cui 17 con SD, 10 con AD, e 24 controlli sani, durante l’esecuzione di un compito cognitivo (CPT=continuous performance test of attention). Nei soggetti con SD e in quelli con AD si registrava un ipometabolismo (GMR=glucose metabolic rate) nel cingolo posteriore rispetto ai controlli. Confrontati con i controlli, i soggetti con SD mostravano invece un ipermetabolismo nella corteccia entorinale/temporale inferiore, le stesse aree nelle quali i soggetti con AD mostravano un ipometabolismo rispetto ai controlli. il dato era confermato nel follow-up ad un anno. Gli autori ipotizzano che l’ipermetabolismo nella corteccia ento-rinale/temporale inferiore dei soggetti con SD possa esprimere un meccanismo di compenso che agisce nella fase pre-clinica della demenza. Con l’avanzare poi del processo neurodegenerativo tale compenso non sarebbe più efficace e si inizierebbero quindi a manifestare i segni clinici di demenza.

Comunque anche in ambito neuroradiologico è importante tener presente che negli individui con SD si riscontrano spesso atrofia cerebrale, calcificazioni dei gangli della base e lesioni aspecifiche della sostanza bianca cerebrale (WML= white matter lesions), markers dell’invecchiamento precoce che non sono però necessariamente associati all’insorgenza di demenza (33).

Circa la terapia per la demenza in soggetti con SD l’utilizzo degli inibitori delle acetil-colinesterasi rimane controverso. Infatti ci sono state evidenze dell’utilità di questi farmaci nei pazienti con SD (34), ma anche della loro scarsa tollerabilità (35). Nella categoria degli anticolinesterasici, il Donepezil è quello maggiormente testato, partendo da un dosaggio di 5 mg per 4-6 settimane con successivo aumento a 10 mg/die. Come nei soggetti non Down affetti da AD anche nei pazienti con SD e AD vi sono controindicazioni all’utilizzo degli anti-colinesterasici, in particolare: anomalie della conduzione cardiaca, ulcera peptica, ritenzione urinaria o patologia ostruttiva delle vie urinarie, BPCO, insufficienza epatica, insufficienza renale, occlusione gastro-intestinale.

Molteplici sono le possibili interazioni farmacologiche tra l’anticolinesterasico e altri farmaci, in particolare va posta attenzione a quelle con antipsicotici, antidepressivi ed anticolinergici.

Accanto all’intervento di tipo farmacologico questa tipologia di pazienti si giova molto anche di interventi psicosociali: un ambiente sano e stabile è di grande importanza. È stato infatti dimostrato che i fattori ambientali hanno un forte impatto sulle funzioni cognitive (36). Attenzione e aiuto vanno dati anche ai familiari e in senso più ampio ai caregivers, troppo spesso lasciati soli nella gestione dei pazienti.

Tra le prospettive terapeutiche future per l’AD, ricordiamo l’impiego di farmaci antinfiammatori, estrogeni e inibitori delle secretasi (che preverrebbero la deposizione di P-ami-

Ioide). L’utilizzo aggiuntivo in terapia per forme di AD severo della Memantina potrebbe essere esteso anche a pazienti dementi con SD, anche se sono ancora scarse le evidenze di una reale utilità del farmaco nel rallentare la progressione della malattia.