INTRODUZIONE La pubblicazione di un testo, manuale o trattato che dir si voglia relativo all'improvvisazione è fondamentalmente un controsenso: proprio per l'indeterminatezza che la contraddistingue, la pratica improvvisativa dovrebbe rimanere fuori da qualunque studio che la riguardi, anche al fine di non snaturare il risultato, rischiando di condizionarne la freschezza. Vedere un improvvisatore suonare, indipendentemente dallo strumento o dal genere musicale, significa spesso vedere un musicista che si fa "flusso", che elude cioè il mero riprodurre, il rappresentare, alla volta invece di un fare che lo riguarda tutto, che lo definisce volta per volta, proprio perché egli stesso non sa che cosa capiterà. L'assenza di predeterminazione implica naturalmente un'onestà di fondo, che in un certo senso è, o dovrebbe essere, un atto dovuto nei confronti della propria arte, quantomeno in considerazione di tutto il tempo, le energie e la dedizione che essa richiede per essere portata a potersi, appunto, definire arte. La medesima parola ci richiama inoltre il concetto di artificio, di artificiale, in contrapposizione a tutto ciò che è naturale. L'uomo si è inventato l'artificiale per prodursi un mondo parallelo, immaginario, perfetto, che in qualche modo lo sollevi dall'implacabilità dell'esistenza, dalla peribilità del tutto, perfino da se stesso. I grandi artisti, ma anche molti umili artigiani, sono spesso stati disposti a dedicare una vita intera, o per lo meno ingenti porzioni di essa, al solo scopo di avvicinarsi, senza mai raggiungerlo, a un altroquando in cui il proprio sé fosse definitivamente appagato: in un certo senso, credo che l'arte possa essere definita come il tentativo di fare a occhi aperti il più bel sogno della vita.