Prefazione di Cecilia Ligo La riscoperta dell’opera seria di Gioachino Rossini nel suo periodo francese muove a partire dal ritrovamento di manoscritti e documenti d’archivio che negli ultimi quarant’anni hanno portato all’attenzione di prestigiosi intellettuali e musicisti la volontà di inaugurare un percorso di studio fondamentale per la comprensione di questa fase cruciale della sua vita e della sua produzione musicale. Tra coloro i quali si sono addentrati nel labirinto di note e significati emersi, spiccano certamente le figure di Philip Gossett e Alberto Zedda. Sarà proprio Zedda ad offrire alcune tra le interpretazioni più autorevoli del nostro tempo delle partiture e delle fonti d’archivio. La sua ricerca contribuirà a stringere un legame strutturale tra le opere di questo periodo e il contesto storico e culturale in cui il compositore le concepì. Le sue parole, cariche di poesia e passione, hanno illuminato generazioni di musicisti, cantanti e registi, dando ragione del genio creativo di Rossini e del suo impatto duraturo sulla storia della musica. In una delle sue riflessioni più toccanti Zedda afferma: «Nelle note di Rossini, trovo l’eco di un’anima che danza con l’infinito, un canto che abbraccia l’universo e un’armonia che scioglie il cuore in mille emozioni». Parole che catturano l’essenza stessa dell’intento musicale di Rossini, così come della sua capacità di trasportare l’ascoltatore in un mondo di pura e strutturata ricerca di bellezza. Queste stesse parole vibrano come un’eco nelle riflessioni che ci offrirà Baricco qualche anno dopo. È infatti in virtù del nuovo approccio ermeneutico inaugurato dalla musicologia sul corpus rossiniano nel suo insieme che Baricco rilegge l’operato del compositore e ne scrive in un prezioso libricino dal titolo Il genio in fuga. L’autore si affaccia alla musica di Rossini impugnando la lanterna dell’indagine filosofica. Particolarmente interessato all’analisi della drammaturgia musicale rossiniana ad un certo punto dice: La drammaturgia rossiniana ha, tra gli altri, questo tratto squisitamente didascalico: il vezzo di concedersi al più antico spartiacque simbolico, quello tra giorno e notte, tra luce e ombra. C’è in ogni finale rossiniano, anche quelli che sanciscono il compiersi di una tragedia e il trionfo del male, un che di salvifico. È la forza della musica, che non conosce ragioni: e anche là dove veicola una condanna, promette una liberazione. Così definito lo schema archetipico della drammaturgia rossiniana assume l’aspetto di mappa simbolica che articola in una serie di luoghi densi dell’accadere il possibile reale. Esso ferma una certa lettura del mondo: magari elementare, ma mai scontata.