CAPITOLO V

La tirannia della paura

Non devo aver paura. La paura uccide la mente. La paura è la piccola morte che porta all’annichilimento totale. Affronterò la mia paura. Lascerò che mi sovrasti e mi attraversi. E quando sarà passata, volgerò l’occhio interiore a guardare il suo cammino. Dove era la paura, più nulla ci sarà. Solo io resterò1.

Si parlava in precedenza di quanto la paura indotta sia un elemento fondamentale per creare una reazione di massa, che permetta la manipolazione delle coscienze. In questo capitolo approfondisco come l’evento pandemico abbia portato a creare una condizione diffusa di panico e insicurezza, a tutto vantaggio di un progetto di tracciabilità e controllo degli individui.


Il filosofo Ivan Illich ha colto con chiarezza il legame fra il potere sanitario e quello politico, e ne ha previsto le nefaste conseguenze e gli scenari futuri in un saggio giustamente famoso:


La medicina iatrogena rafforza una società morbosa nella quale il controllo sociale della popolazione da parte del sistema medico diventa un’attività economica fondamentale; serve a legittimare ordinamenti sociali in cui molti non riescono ad adattarsi; definisce inabili gli handicappati e genera sempre nuove categorie di pazienti. L’individuo che è irritato, nauseato e menomato dal lavoro e dallo svago industriali può trovare scampo solo in una vita sotto vigilanza medica e viene così distolto o escluso dalla lotta politica per un mondo più sano2.


L’educazione (quella che ha plasmato noi adulti, come quella che sta modellando i nostri figli) è stata un fattore chiave nello sconvolgimento esistenziale che si è verificato negli ultimi due anni, e sarà anche un fattore determinante per il modo in cui usciremo da questa crisi.


La paura innesca una reazione innata detta di “lotta o fuga”, che porta a esaltare l’aggressività, oppure a comportamenti di evitamento, fino ad arrivare, quando né la lotta né la fuga sono possibili, al ritiro emotivo, il distacco dalle emozioni, il farsi piccoli e invisibili per sfuggire alla minaccia reale o percepita. Quando domina la paura o l’ansia, i processi di apprendimento, di esplorazione, la curiosità, la razionalità vengono fortemente inibiti: si va in modalità sopravvivenza, in cui l’unica cosa importante sono i riflessi pronti per combattere, fuggire o nascondersi.


Ecco perché è così difficile confrontarsi con una persona spaventata, e riportarla “alla ragione” con argomentazioni logiche, scientifiche o con il semplice buon senso: la sua visione a tunnel le permette di inquadrare solo una piccola area del suo campo percettivo, ed è arroccata in difesa; quando qualcosa mette in pericolo le sue certezze, si attiva il meccanismo della negazione, quindi l’interlocutore che sta cercando di dialogare in modo critico viene identificato come una minaccia, e la sua argomentazione come un attacco personale. Questo meccanismo è stato utilizzato a piene mani e incoraggiato dall’ideologia oggi dominante, al fine di mantenere il consenso sulla narrativa relativa all’evento pandemico. Alla popolazione terrorizzata è stato dunque fornito un assortimento stereotipato di figure negative a cui attingere qualora ci si imbattesse in chi esprime obiezioni razionali, per tacitarlo attribuendogli etichette di estremista, negazionista, terrapiattista e quant’altro possa servire per disprezzare e squalificare chi non esprime consenso. Come già abbiamo visto parlando di pedagogia nera, il dissenso all’interno di un doppio legame non è consentito, e chi contesta può rientrare solo in una di queste due categorie: malvagio o pazzo.


Così, se in passato prevalevano le tirannie e con esse la persecuzione dei dissidenti definiti come criminali, oggigiorno prevalgono i totalitarismi, dove il dissenso viene definito come una patologia da curare.