capitolo i

Nativi digitali e
immigranti digitali

Il divario generazionale è accentuato dalle tecnologie?

Noi, odierni genitori di bambini e adolescenti, siamo cresciuti in un mondo privo o quasi di tecnologia e adesso ci ritroviamo ad allevare figli che vi sono immersi, fin dalla nascita.


In gioventù abbiamo consolidato le amicizie sussurrando i nostri segreti attraverso la cornetta di un telefono, posto in ingresso o in sala, mentre ne tormentavamo il filo finché orecchie troppo indiscrete ci convincevano a interrompere la conversazione, per riprenderla una volta usciti di casa e aver incontrato i compagni con cui si intrecciavano nuove esperienze e si vivevano nuove avventure. In serata, dopo la cena consumata in compagnia dei nostri genitori senza fastidiosi squilli, poiché vigeva la regola non scritta della buona educazione che vietava le chiamate al mattino troppo presto o alla sera troppo tardi, e comunque mai durante l’ora dei pasti, ci riunivamo tutti insieme davanti alla televisione, concordi – o quasi – sul film o il programma più interessante da vedere.


Quando si ascoltava la musica con lo stereo questa si diffondeva nelle stanze, talvolta a volume troppo alto, con le conseguenti proteste di chi non gradiva le nostre scelte musicali e suggeriva, o imponeva, un punto di accordo.


Anche la comparsa dei primi giochi elettronici non aveva decretato l’isolamento dei membri della famiglia in quanto essi prevedevano, quasi sempre, il coinvolgimento di almeno due o più giocatori. La poca tecnologia presente nelle nostre vite era quindi condivisa e, proprio per questo motivo, rappresentava un’ulteriore occasione di dialogo, a volte di scontro, ma comunque sempre di confronto.


Poi, quasi senza rendercene conto, siamo scivolati nell’era tecnologica accendendo i primi computer per scrivere la tesi di laurea o per snellire il lavoro in ufficio; siamo passati dal telefono cordless di casa a ingombranti cellulari con cui concludere una conversazione anche all’esterno delle mure domestiche e via via siamo stati travolti da questa rivoluzione tecnologica silenziosa e dilagante che ha modificato le nostre abitudini di vita.


Mio marito mi aveva regalato il primo cellulare quando ero incinta del nostro primogenito. Per alcuni mesi era rimasto inattivo nella scatola dell’imballaggio ma poi mi sono risoluta ad accenderlo, pungolata dalle ragioni del futuro papà apprensivo: “Non si sa mai, si rompessero le acque quando sei fuori casa mi chiami subito e corriamo in ospedale…”.


Da quel momento, inesorabilmente e impercettibilmente, la quotidianità si è trasformata non solo a causa della creatura che stringevo fra le braccia e che, con i successivi modelli di telefono, potevo anche immortalare in qualsiasi momento della giornata senza dover rammentare dove avevo abbandonato la macchina fotografica dopo l’ultimo Natale o compleanno.


Quando guardavo con mio figlio il dvd di Bambi, il cartone animato che preferiva da piccolo, potevo tranquillamente far andare avanti a velocità doppia la parte in cui la mamma viene uccisa dal cacciatore e, inoltre, potevo decidere in quale momento della giornata vedere il cartone senza dover sottostare alla programmazione televisiva. Poi sono arrivati i giochi interattivi ed “educativi”, contenuti in un dischetto da inserire nel pc e, con i successivi due figli, ho acquisito famigliarità con i giochi scaricabili online da fruire con un sottilissimo tablet trasportabile ovunque con facilità.


Per una sorta di mutazione genetica, quindi, due genitori immigranti digitali si sono ritrovati per casa tre digital kids a loro agio con la tecnologia – almeno così credevamo, confortati dai primi articoli e libri sull’argomento.


Il primo a suddividere il mondo in generazione “con” e generazione “senza tecnologia” è stato il poeta americano John Perry Barlow in occasione del Forum economico mondiale svoltosi a Davos nel 1996, definendo nella sua Dichiarazione di indipendenza del Cyberspazio i nostri figli come “nativi digitali” in un mondo nel quale noi genitori saremo sempre “immigranti digitali”.


Questi due neologismi hanno subito attecchito nell’immaginario collettivo facendo leva sul timore, vissuto da molti genitori, di un divario generazionale che la tecnologia avrebbe reso ancora più marcato acuendo i problemi legati all’educazione: adulti privi di capacità tecnologiche alle prese con figli portatori di una conoscenza digitale presunta innata.


Qualche anno dopo, nel 2011, il responsabile dell’orientamento educativo Mark Prensky sottolineò come la cifra di un immigrante digitale sia ravvisabile nel suo riferirsi a Internet come a una seconda scelta nel reperimento delle informazioni e non come alla fonte primaria; i nativi digitali, al contrario, elaborano le informazioni in modo radicalmente diverso dai loro predecessori in quanto parlano la lingua dei computer, dei videogiochi e di Internet.