I bulli online e offline
Il bullismo è un fenomeno che esiste da sempre o, quanto meno, noi odierni genitori ne rammentiamo episodi che ci infastidivano – se ne eravamo spettatori più o meno recalcitranti – o ci ferivano con intensità variabile se ne eravamo vittime. Spesso non si distingueva il limite che separava il dispetto saltuario e reciproco dalla vessazione fisica o verbale protratta nel tempo. Sovente si giungeva a redimere il bullo dopo averlo messo in “quarantena”, esiliandolo dal gruppo per un po’ di tempo, o si interveniva in aiuto dell’amico, oggetto dell’angheria, con uno sguardo sdegnato di rimprovero o con le mani serrate pronte a colpire.
Tanti anni fa non si parlava di bullismo, come non si parlava di deficit di attenzione o di disturbi del comportamento alimentare, per citarne solo alcuni; si viveva l’esperienza quotidiana fra un’aula scolastica, un campetto di calcio, una piazza di quartiere, un cortile di oratorio e, talvolta, si inciampava in questi ostacoli, disseminati lungo il percorso, che assumevano le sembianze della ragazzina insolente e irrispettosa o del compagno manesco e prepotente.
Solo a partire dagli anni Settanta si iniziò a studiare il fenomeno, prima nei Paesi scandinavi e poi in quelli anglosassoni, sulla scia di un fatto di cronaca che sconvolse l’opinione pubblica: il suicidio in Norvegia di due studenti che non riuscivano più a sostenere il peso della persecuzione da parte dei compagni.
Da quel momento l’attenzione sul bullismo è cresciuta, alimentandosi di luoghi comuni, semplificazioni, contrapposizioni: e così il bullo viene descritto come la vera vittima perché trascurato in famiglia, oppure come il giovane arrogante viziato dai genitori, e ancora gli episodi di bullismo sono tratteggiati come fenomeni passeggeri oppure come innocue ragazzate a cui non attribuire troppa importanza; per alcuni il bullismo affonda le sue radici nell’indigenza e nell’ignoranza mentre per altri si nutre di benessere e superficialità.
Fiumi di inchiostro sono stati impressi sulla carta nel tentativo di spiegare un fenomeno in grado di provocare, in un bambino o in un adolescente, un trauma che talvolta condiziona l’intera esistenza. Il primo a scriverne, proprio in seguito all’episodio sopra citato del duplice suicidio, è stato lo psicologo svedese Dan Olweus che, nel tentativo di caratterizzare il fenomeno del bullismo, a differenza degli episodi di aggressività giovanile, ha ravvisato in esso tre peculiarità sempre ricorrenti: la prima è l’aggressione, che può essere sociale, fisica o psicologica, la seconda è la ripetizione dell’azione e la terza consiste nello squilibrio di potere fisico o sociale fra vittima e carnefice.
Con questa prima definizione sono stati fissati dei paletti entro i quali racchiudere gli episodi di bullismo, per evitare di confonderli con atti di molestia e di conflitto isolati oppure con azioni reciproche.
I bulli odierni, però, pur muovendosi nell’ambito del recinto descritto da Olweus possono passare dalla tradizionale modalità offline e quella online, possono cioè trasformarsi da bulli in cyberbulli in quanto il fenomeno oggigiorno tende a dilatarsi occupando tutte le realtà sociali vissute dai giovani, comprese quelle virtuali.
In quest’ottica va letto il risultato di un sondaggio Ipsos, commissionato da Save The Children, dal quale risulta come quasi il 70% dei giovani tema non il cyberbullismo bensì il bullismo, di cui il primo non è che un particolare modo di esprimersi. Analizzando nel dettaglio tale documento si evince che il principale luogo di manifestazione risulta essere la scuola, per il 78%, seguìto dagli altri luoghi fisici di aggregazione. Il fenomeno, dopo che un ragazzo è stato preso di mira, può protrarsi ovunque, secondo per il 66% del campione intervistato, compresi internet e cellulari.
Il conflitto, che un giovane deve imparare a gestire, si presenta quasi sempre in un luogo fisico, sia esso la scuola, la palestra oppure un locale dove si svolge una festa; se non viene risolto in tale contesto può trasferirsi nel mondo virtuale dove, secondo DoSomething.org, l’81% dei ragazzi crede sia più facile farla franca, grazie all’anonimato e allo schermo che si frappone fra l’azione del carnefice e la reazione emotiva della vittima.
Il problema del bullismo digitale nasce lontano, o meglio nasce fuori dalla rete, e si radica nella complessità dei rapporti che viene affrontata sovente con superficialità e noncuranza. Per questa ragione diventa più facile addossare la colpa alla tecnologia piuttosto che assumersi la responsabilità genitoriale. Rappresenta un’esigenza improcrastinabile domandarsi se esista davvero quest’emergenza oppure se l’idea che i social incrementino il fenomeno sia solo un preconcetto largamente diffuso fra gli adulti. Adulti che forse qualche lacuna nell’essere genitori, tradizionali o 2.0, dovrebbero colmarla per poter mettere in campo le strategie necessarie per arginare gli spiacevoli effetti di questa deriva mediatica che, come si analizzerà, colpisce trasversalmente tutti.
Di certo esiste un’emergenza bullismo dall’esame anche dei dati, forniti da Telefono Azzurro, che denunciano nel 2016 una segnalazione al giorno alla linea gratuita in funzione 24 ore su 24; inoltre, sempre secondo questa fonte, l’età delle vittime si sta abbassando al di sotto della fascia preadolescenziale.