capitolo iii

Un ambiente da bambino

I fatti di cronaca sono la punta dell’iceberg?

A partire dal 2012 iniziano ad affacciarsi alle cronache i primi casi definiti di cyberbullismo e connotati da un finale drammatico, di conseguenza i riflettori di tutto il mondo si accendono su una sfaccettatura dell’universo adolescenziale 2.0 di cui ancora non si è valutata la complessità e la portata.


Amanda è una ragazza canadese di quindici anni, connessa come molti suoi coetanei e alla ricerca della sua identità anche tramite i social. Su Facebook incontra un “amico”; i due chattano con prime frasi magari innocue, che si spingono però in fretta sempre più in là, oltre il senso del pudore e della timidezza che un’adolescente proverebbe trovandosi a tu per tu con un uomo che conosce da poco. Ma il web accorcia le distanze, annulla i freni inibitori, online si pensa di vivere in un’altra dimensione, sganciata dalla realtà che forse è percepita come insoddisfacente. Durante una webcam chat lui le chiede di mostrare il seno, lei accetta con la superficialità e l’ingenuità che spesso connotano le giovani desiderose solo di piacere, di essere accettate e considerate da qualcuno. E non importa se quel qualcuno sia uno sconosciuto al quale non apriresti mai la porta di casa, ma al quale decidi di aprire la finestra della webcam permettendogli, con una disarmante noncuranza, di entrare nella tua cameretta e nella tua intimità per farne scempio. Le foto di Amanda a seno nudo iniziano a girare nel web, nonostante lei avesse acconsentito a “dare spettacolo” per scongiurare quella minaccia, e inizia il suo calvario mediatico. A scuola la prendono in giro, molte compagne la isolano: lo stigma della vittima la rende sempre più vittima nel mondo reale e in quello digitale. Riesce a intravvedere uno spiraglio nelle attenzioni di un altro uomo al quale cede, ma lui è già impegnato, sicché la sua fidanzata aspetta Amanda all’uscita di scuola e la picchia, sotto gli occhi dei compagni che, anziché difenderla, incitano alla violenza. Amanda rientra a casa e decide di porre fine alla sua disperazione bevendo candeggina ma una lavanda gastrica la salva riconsegnandola a un mondo, reale e virtuale, che la umilia e la emargina. Non fa a tempo a tornare a casa dall’ospedale che quel lui anonimo posta su Facebook la foto di un detersivo linkandola e la gogna mediatica riprende con frasi feroci del tipo:

“Doveva usare un detersivo differente”
“Spero che la prossima volta muoia davvero e non sia così stupida”

E Amanda la volta successiva non fallisce, prima però affida a Youtube il suo video testamento, scritto con il pennarello su fogliettini di carta che lei fa scorrere tenendoli fra le mani. Sulle braccia si scorgono dei tagli, quelli che molte ragazze si autoinfliggono per non sentire il dolore che le pervade dentro e per rendere visibile a tutti il loro disagio, nella speranza che chi si accorge della loro sofferenza tenda una mano e non la usi per ferire fisicamente o psicologicamente.

“Piangevo ogni notte, ho perso ogni amico e ogni tipo di rispetto”
“Non ho nessuno. Ho bisogno di qualcuno”
“Ogni giorno penso: perché sono ancora qua?”

Amanda Michelle Todd, Port Coquitlam (Vancouver), 26 novembre 1996 – 10 ottobre 2012.


Dal Canada all’Italia, da Port Coquitlam a Novara, dal 10 ottobre 2012 al 5 gennaio 2013, da Amanda a Carolina: due adolescenti accomunate dalla difficoltà di crescere e di resistere alla violenza dei loro aguzzini incontrati nel mondo reale e in quello virtuale.


Carolina è a una festa, forse beve un po’ troppo, si sente male e va in bagno, la seguono alcuni ragazzi, lei perde conoscenza e inconsapevolmente diviene protagonista di un video a sfondo sessuale subito diffuso su Facebook. Anche su Twitter si scatena immediatamente la gogna mediatica ai danni di Carolina con 2.600 messaggi in 24 ore che la perseguitano fino a spingerla a gettarsi dal balcone nel vuoto, quel vuoto creato dalla società – con la complicità delle istituzioni scuola e famiglia – che sempre più annaspano nel testimoniare valori ai quali attenersi quando si vive offline e, parimenti, online.


Carolina, come Amanda, si è congedata dal mondo affidando i suoi pensieri a quel mondo virtuale nel quale cercava, come la maggior parte dei suoi coetanei, la propria identità.

“Scusatemi, non ce la faccio più a sopportare”
“Le parole fanno più male delle botte”

Dopo la sua morte si è aperto in Italia il primo processo di cyberbullismo con capi d’imputazione pesanti come macigni: violenza sessuale di gruppo per cinque dei ragazzi coinvolti, diffusione di materiale pedopornografico per uno di loro e morte come conseguenza di altro reato per due. Anche Facebook è finito sul banco degli imputati per non aver effettuato controlli in merito alla diffusione del video postato e condiviso da molti.


Hannah ha quattordici anni, vive nel Regno Unito e anche su Ask.fm, dove una valanga di insulti l’ha travolta senza un apparente motivo. Si era iscritta a quel social come milioni di altri suoi coetanei in tutto il mondo. Si formulano domande e si aspettano risposte ma, spesso, vengono postati insulti in forma anonima che scatenano la ferocia del branco internettiano. Hannah è stata presa di mira per il suo peso, come molte altre adolescenti che non incarnano l’odierno mito, la thininspiration, della bellezza intesa come magrezza: “Mucca, se muori nessuno se ne accorgerà” è stato uno fra i tanti, troppi insulti che è stata costretta a leggere e che l’hanno sopraffatta. Il giorno prima di impiccarsi nella sua cameretta questa ragazzina inglese ha pubblicato su Facebook una disperata richiesta di aiuto che, purtroppo, non è stata raccolta: “Pensi di voler morire ma in realtà vuoi solo essere salvata”, è l’agosto del 2013.


Nadia ha quattordici anni e vive a Padova, probabilmente è alla prese con un’adolescenza che la tormenta e alla quale reagisce ferendosi nel corpo e mostrando quelle cicatrici agli utenti di un mondo virtuale che rende distratti e talvolta feroci, come quei ragazzini che alle foto pubblicate da Nadia rispondono con crudeltà.

“Fai schifo come persona”, “Con cosa è meglio tagliarsi? Non è meglio usare la lametta?”, “Spero che uno di questi giorni taglierai la vena importantissima che è sul braccio e morirai!”.

Amnesia, il nome con cui Nadia si è registrata sul social Ask.fm e su cui ha scritto un post di commiato, “Basta stupido mondo”, si è tolta la vita nel febbraio del 2014 gettandosi dal terrazzo di un ex albergo disabitato.


Andrea è un ragazzo poco più che ventenne e trascorre la sua vita in un piccolo paesino nella campagna del Vercellese, Borgo D’Ale, fra il lavoro in un’officina e gli amici che a poco a poco si trasformano nel suo peggiore incubo. Andrea diventa vittima di scherzi sempre più pesanti: lo gettano nei cassonetti dell’immondizia, gli infilano sacchetti di plastica in testa, un’escalation di vessazioni: scherzi innocui per loro, quotidiane iniezioni di veleno per lui. Finché questi episodi di bullismo vengono documentati con scatti fotografici e postati su una pagina Facebook aperta apposta per lui, per metterlo alla berlina: il fiume impetuoso alimentato dai bulli, come accade sempre più spesso nell’epoca dei social, sfocia nel mare magnum del web e nel cyberbullismo che amplifica a dismisura le umiliazioni inflittegli. Lui reagisce, denuncia l’accaduto alla Polizia Postale che, al termine delle indagini, dispone la chiusura della pagina: gli atti finiscono sul tavolo della Procura e una persona viene indagata. Ma intanto il tarlo della depressione ha iniziato a scavare nell’animo di Andrea, tormentando le sue giornate per oltre un anno fino a quando, a settembre del 2015, decide di togliersi la vita impiccandosi nella casa dove viveva con i genitori. In un secondo momento, come accade spesso dopo simili tragedie, si cerca di definire come siano andati in realtà i fatti, si tenta di ricomporre la verità talvolta stravolta dalle cronache dei quotidiani o dal tam-tam che corre sui social. Forse Andrea era un ragazzo fragile, forse viveva un’esistenza già tormentata e forse, anziché trovare sul suo cammino amici che gli tendessero la mano, ha incontrato persone che con superficialità e noncuranza lo hanno trattato come uno di loro, senza porsi il problema di come e se quegli scherzi potessero essere sopportati da lui: episodi scaturiti da una disarmante irresponsabilità, ancora più difficile da accettare in quanto i protagonisti non erano più dei ragazzini.


Uno degli ultimi episodi, in ordine di tempo, è accaduto a Napoli dove un ragazzino di tredici anni è stato aggredito per strada da tre coetanei; si è trattato di un caso di bullismo che intreccia un’altra grave emergenza, quella della baby gang che insultano e picchiano loro coetanei senza alcuna ragione. In questo caso, però, le immagini della vittima non sono state diffuse sui social dai suoi carnefici bensì dal padre che, postando il volto tumefatto del figlio, si è interrogato sul senso di tale violenza auspicandosi che quanto accaduto al piccolo Fabio non si verifichi più. Purtroppo però dal sud al nord Italia gli episodi si stanno moltiplicando, come è accaduto a Vigevano dove alcuni quindicenni hanno picchiato e violentato un coetaneo, colpevole solo di essere più introverso e fragile rispetto a quei giovani di cui ambiva essere amico e che invece si sono trasformati nei suoi aguzzini.