A scuola per imparare la “sconfitta”
Era il 1961 quando Pier Paolo Pasolini in occasione di un’intervista al settimanale Vie nuove aveva dichiarato:
Ma io sono un uomo che preferisce perdere piuttosto che vincere con metodi sleali e spietati. Grave colpa da parte mia, lo so! E il bello è che ho la sfacciataggine di difendere tale colpa, di considerarla quasi una virtù.
Molti anni dopo Rosaria Gasparro, una maestra di scuola elementare, posta sotto questo pensiero pasoliniano un suo commento che, a causa di una serie di copia e incolla superficiali – come accade di consueto sui social –, viene attribuito erroneamente allo scrittore e regista:
Penso che sia necessario educare le nuove generazioni al valore della sconfitta.Alla sua gestione. All’umanità che ne scaturisce. A costruire un’identità capace di avvertire una comunanza di destino, dove si può fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne siano intaccati. A non divenire uno sgomitatore sociale, a non passare sul corpo degli altri per arrivare primo. In questo mondo di vincitori volgari e disonesti, di prevaricatori falsi e opportunisti, della gente che conta, che occupa il potere, che scippa il presente, figuriamoci il futuro, a tutti i nevrotici del successo, dell’apparire, del diventare. A questa antropologia del vincente preferisco di gran lunga chi perde. È un esercizio che mi riesce bene. E mi riconcilia con il mio sacro poco.1