di Cristiano Bosco

Prefazione

Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio

Proverbio africano

Guns don’t kill people, people kill people”. Ovvero, più o meno letteralmente: “Le armi non uccidono le persone, sono le persone a farlo”. Così recita uno degli slogan più celebri legati alla NRA – National Rifle Association, la potentissima lobby statunitense dei detentori di armi da fuoco e difensori del secondo emendamento, più volte menzionata (spesso a sproposito) anche dai media al di qua dell’Atlantico, perennemente decisiva in ogni tornata elettorale a stelle e strisce. Una frase provocatoria, naturalmente. Che però, al di là delle legittime opinioni di ciascuno in materia, risulta logicamente ineccepibile: non è l’arma, in sé, in quanto oggetto, a rappresentare una minaccia o un pericolo per la società, ma può diventarlo a seconda dell’uso che gli esseri umani ne possono o vogliono fare. Un concetto che si può prendere in prestito e adattare, in maniera pressoché analoga, al dibattito su Internet, social media e rischi connessi alla rete. A dispetto di molte e purtroppo diffuse semplificazioni e di luoghi comuni che faticano a estinguersi, il computer, lo smartphone, il tablet, così come la rete, Facebook o Whatsapp, giusto per fare qualche esempio, non rappresentano qualcosa che sia negativo a prescindere. Né positivo, ovviamente. Nella tendenza a personificare qualsiasi cosa, spesso ci dimentichiamo che si tratta di semplici strumenti a nostra disposizione, del tutto privi di connotazioni. Strumenti, oggetti e applicazioni dalle notevoli e per certi versi inesplorate potenzialità, che possono dare vita a risultati e conseguenze straordinarie, con un impatto decisivo nelle nostre vite, nel bene e nel male: tutto dipende da come li si utilizza.


Da tempo, la comunità – non solo quella scientifica – si interroga sui pro e i contro della presenza sempre più costante del web e dei social media nelle nostre esistenze. Domande simili a quelle che per qualche decennio gli esperti si sono posti sugli effetti di radio, televisione e, per un breve periodo, anche dei videogame; i più attenti si ricorderanno, infatti, che negli anni ’90 i videogiochi violenti e la musica (hip-hop o metal, a seconda dei casi) erano il cliché alla base della maggior parte delle notizie relative a fattacci di cronaca che coinvolgevano giovani e adolescenti. Nell’agosto 2012, il sito web SocialMediaToday.com, con un articolo a firma Syed Noman Ali, si chiedeva se i social fossero “buoni o cattivi” per noi, elencando effetti positivi e negativi del fenomeno. Tra i “pro”, la possibilità di dare vita più facilmente ad amicizie e relazioni sociali, la riduzione delle barriere comunicative, le opportunità lavorative e per il business; tra i “contro”, la tendenza a sviluppare una dipendenza da parte degli utenti, l’uso estremo di social che può condurre a una sorta di isolamento nella propria identità virtuale allontanandosi da quella reale, nonché un’influenza negativa sulla produttività: in parole povere, più si tende a trascorrere tempo sui social network, meno si lavora.


“La nostra è un’epoca intontita dall’intrattenimento grafico”, scriveva il giornalista premio Pulitzer George Will nel 2001, in un editoriale pubblicato da TownHall dedicato alla reality television. “E in una società sempre più infantilizzata, la cui filosofia morale si può ridurre a una celebrazione della ‘scelta’, gli adulti sono sempre meno distinguibili dai bambini per il loro assorbimento nell’intrattenimento, e per i tipi d’intrattenimento da cui sono assorbiti: videogiochi, giochi per computer, giochi manuali, film su computer, e così via. Questo è il progresso: una forma sempre più sofisticata di stupidità”. Il suo column si rivolgeva verso altri bersagli, dal momento che la rete di Internet era ancora in fase di espansione e i social network ancora non esistevano. Tuttavia, già nelle sue parole – non a caso inserite tra le citazioni introduttive del libro provocatorio “Tutto quello che fa male ti fa bene” di Steven Johnson – si metteva in evidenza il ruolo e la responsabilità che gli adulti dovrebbero avere e che spesso, purtroppo, non hanno.


La tematica del cyberbullismo è di estrema attualità, come purtroppo confermano le cronache degli ultimi anni, tanto in Italia quanto all’estero. Ma l’approccio con cui l’autrice si affaccia sulla questione, in queste pagine, è differente rispetto a quello che, per ovvie esigenze di brevità o di clamore, viene spesso riservato all’argomento da parte dei media generalisti. Avvocato, scrittrice, oggi alle prese con il ruolo di Sindaco della sua Città, la poliedrica Ilaria Caprioglio ritorna – solo temporaneamente – al suo mestiere di saggista per confezionare un’analisi approfondita di un fenomeno complesso e piuttosto inesplorato nei suoi meandri. E lo fa dal punto di vista dell’esperta in materia, ma anche e soprattutto da quello di madre, di genitore appartenente alla categoria dei cosiddetti digital immigrants, immigrati digitali – per utilizzare la fortunata definizione coniata da Mark Prensky – alle prese, tutti i giorni, con i digital natives, nativi digitali. Due mondi che senza dubbio sono alquanto lontani tra loro. Che sono costretti a convivere, loro malgrado. Che ancora non riescono a comprendersi reciprocamente. Che devono iniziare a comunicare. O, almeno, provarci.


Nel 1995, Bill Gates, fondatore della Microsoft Corporation e pioniere della rivoluzione digitale che stiamo tuttora vivendo, aveva previsto tutto. Mentre il mondo utilizzava ancora gli schermi televisivi con tubo catodico, i videoregistratori, i compact disc, i telefoni fissi e le cabine telefoniche, il papà di Windows, nel suo libro The road ahead (in Italia, La strada che porta a domani), scriveva di “autostrade informatiche”, di Internet, di video on-demand, di HDTV, di e-book e di home banking. “Potremo sbrigare affari e pratiche, lavorare, studiare e divertirci senza muoverci dal luogo dove siamo”. All’epoca, in un mondo analogico dove alcuni ancora riavvolgevano le audiocassette con la matita, sembrava la sceneggiatura di un film di fantascienza sulla falsariga di Ritorno al Futuro, senza macchine volanti. Invece, quelli che apparivano ai più come i sogni di un visionario, in meno di vent’anni, si sono trasformati in realtà. Oggi non solo stiamo vivendo il futuro profetizzato da Gates: non riusciremmo a immaginare diversamente il presente e, in molti casi, ci dimentichiamo di come si vivesse prima della digitalizzazione delle nostre vite. Comunichiamo con il mondo tramite Facebook, Twitter, Whatsapp, pubblichiamo le nostre immagini su Instagram, guardiamo film su Netflix e video su YouTube, ascoltiamo musica su Spotify, cerchiamo ogni risposta su Google e indicazioni stradali su Google Maps, facciamo shopping su Amazon, speriamo di trovare un partner su Tinder, non andiamo al ristorante se prima non leggiamo le recensioni su TripAdvisor. L’elenco può andare avanti ancora a lungo. Siamo perennemente connessi, e il gesto di dare un’occhiata allo smartphone è diventato l’azione compiuta più spesso nelle nostre giornate. Per non parlare dello stato di abbandono e isolamento in cui precipitiamo se terminiamo i Giga per il traffico dati, ci troviamo in aree prive di segnale per il telefono o se si esaurisce la batteria. Se ciò abbia di fatto migliorato o peggiorato la qualità della nostra vita, ancora ci si interroga e il sottoscritto – nativo digitale per ragioni anagrafiche – non può che parteggiare per la prima ipotesi. Ma il punto su cui concentrarsi è un altro: l’iper-connessione è un dato di fatto, è la realtà con cui ci confrontiamo, dalla quale non si può tornare indietro. E il meglio e il peggio del mondo reale, con tutte le loro sfaccettature, sono stati in tempo zero catapultati anche nel mondo digitale, amplificati, messi a disposizione di ognuno di noi, spesso senza filtri o senza controlli. Il web diventa una potenziale risorsa, ma al tempo stesso una potenziale minaccia: la linea di demarcazione è molto sottile. È per questo che serve una presa di coscienza della situazione attuale, leggi al passo con i tempi, presenza delle istituzioni, ma soprattutto, come giustamente evidenziato da questo volume, una partecipazione più attiva – e più consapevole – dei genitori, per mettere al riparo le nuove generazioni dai pericoli che corrono sul filo della rete.