CAPITOLO III

Sacralità della nascita

“E vennero per lei i giorni del parto…”
Vangelo di San Luca 1,57


Il parto è un’esperienza totale. Un’iniziazione al Mistero.


Durante il parto la donna si fa canale, tramite per il passaggio della Vita. Più è vuota, più il canale è libero e pulito, più facilmente avviene il parto. Partorire è aprirsi e lasciarsi attraversare da un’energia che viene da lontano, dal centro del mondo, dal centro di sé.


Il bambino, immerso nelle acque sacre, respira insieme alla madre. Onda vicino all’onda nel respiro del grande mare.


Le contrazioni si susseguono con ritmicità: se la donna riesce a cavalcarne l’onda come un’esperta surfista, se si abbandona ad esse con assoluta fiducia, queste diventano una danza, la danza cosmica della vita. Ma se questo non avviene, possono anche trasformarsi in colpi di arma da fuoco e il parto diventa un inferno, un campo di battaglia. Per la mamma e per il bambino. Le contrazioni possono essere per lui carezza che avvolge, che massaggia, che contiene, ma possono anche farsi torchio che stringe, comprime, soffoca.


Il dolore si fa sofferenza senza senso. Insopportabile per entrambi. La madre si arrende e si consegna nelle mani dei tecnici, dei cosiddetti esperti e il bambino si ritira, smette di impegnarsi, si rifiuta di nascere.


I problemi insorgono quando si cerca di resistere, di opporsi all’energia di Vita che travolge e trascina verso direzioni e mete inaspettate. Il trauma nasce sempre da un’opposizione, da un rifiuto ad accettare un’esperienza, da un attrito lungo la traiettoria prestabilita. Il bambù che si china al soffio del vento, si piega e si rialza, il tronco rigido dell’albero secco viene spazzato via.


Se la donna si mette all’ascolto del suo corpo e del suo bambino, se lavora insieme a lui come una compagna di cordata, parlandogli e rassicurandolo, allora ecco che tutto procede secondo i ritmi della natura. Il bambino si impegna, collabora, punta i piedi sulla parete dell’utero per darsi la spinta verso l’esterno. Il mondo lo aspetta e lui non vede l’ora di farne parte. Il respiro della madre che si fa canto, lo sostiene e lo guida. Gli indica la strada. Perché il respiro è il cordone ombelicale che ci lega al divino.


Poi, a un certo punto, il bambino deve passare sotto l’arco della sinfisi pubica e per farlo deve compiere un atto altamente significativo e simbolico: deve chinare la testa, deve dire sì alla vita. Perché non c’è libertà senza prima resa e sottomissione. Ma qui non si tratta di un gesto servile nei confronti di un potere umano bensì di un atto sacro, di un gesto di umiltà nei confronti del divino, di un’accettazione del dono che proprio in quanto dono non può essere rifiutato.


Finalmente, ecco la testa. Compare incoronata dalla vulva materna. La fontanella è lì, come un occhio aperto sul mondo.


Poi piano piano la testa ruota con un movimento a spirale, il moto degli astri e delle galassie. Ecco che emerge una spalla e poi è un attimo e il bambino è fuori, tenero e umido come un mollusco sgusciato dal ventre materno che sul ventre fa ritorno.


Eccolo, è lì. Silenzio. Non disturbate. Non interferite. Avvicinatevi in punta di piedi come i pastori di Betlemme. Questo grumo di carne è un miracolo vivente. Dategli tempo per aprirsi alla vita.


Nessun tocco è abbastanza delicato per lui in questo momento. Nessun suono abbastanza lieve se non il soffio della voce paterna. Dategli tempo. Lui viene dall’eternità.