Quando riflettevo sulla ricerca di esperti a cui chiedere testimonianze per questo volume, il mio pensiero è
andato subito a Valentina Ciardelli, ginecologa a Bologna, amica da anni, nonché frequentatrice, durante le sue ultime gravidanze, dei miei corsi di
preparazione al parto… Un giorno mi aveva raccontato infatti della sua esperienza con i tagli cesarei e della modalità da lei escogitata per renderli
il meno traumatici possibili per il neonato: le sue riflessioni mi avevano affascinato perché coincidevano esattamente con la mia convinzione che
qualsiasi atto – anche il più traumatico come un intervento chirurgico – può essere condotto con sensibilità e delicatezza. E sono proprio sensibilità
e delicatezza, in questo caso dell’operatore, a fare la differenza…
Ecco perché ho deciso di inserire qui la sua testimonianza che, pur non riguardando i nati prematuri, ha a che fare comunque con i neonati che hanno avuto un inizio difficile e più traumatico di altri. Valentina me l’ha inviata via mail dopo averla scritta durante una delle sue notti di guardia: l’ho trovata così toccante che ho preferito lasciarla così, evitando questa volta lo stile dell’intervista.
…le prime mani che ti hanno toccato non sono state quelle della tua mamma e di questo ti chiedo scusa, piccolo cucciolo d’uomo…
Quarto anno di medicina, due di notte, ospedale di Reykjiavik. Spio da dietro una tenda il primo parto della mia vita e piango. Eppure di poesia in quella nascita c’è ben poco: episiotomia, ventosa rigida, tanto sangue, tanto dolore…
Sono trascorsi più di 15 anni, di parti ne ho assistiti a centinaia, ho applicato tante ventose ed eseguito tanti cesarei e malgrado ciò continuo a chiedermi la stessa cosa: come posso aiutare anche il bambino a soffrire meno? Quando la mamma poi sceglie l’epidurale e, riducendo il suo stimolo doloroso, produce meno endorfine anche per il suo bambino, come vicariare al calo di questi benedetti ormoni, antidoto naturale al dolore?
Diventando madre ho ricevuto molti doni, il più grande dei quali sicuramente è lo sguardo nuovo verso il bambino come soggetto. E così, tutto è cambiato.
Pian piano, grazie all’insegnamento continuo delle mie ostetriche e di molti colleghi e maestri, ho iniziato a vivere diversamente il mio modo di stare in sala parto, il mio tono di voce, il mio uso delle luci, il mio visitare le donne in travaglio, il mio toccare il bambino e il come aiutarlo a nascere quando qualcosa non va, cercando di tenere ben a mente che non esiste nulla di più intimo e unico della nascita, che quello è uno spazio sacro in cui ho il privilegio di entrare e devo farlo, possibilmente, in punta di piedi.
E poi quell’episodio che non dimenticherò facilmente: sala operatoria, luci, mascherine, voci non smorzate e musica. Sto eseguendo un taglio cesareo ed ecco che, mentre infilo la mia mano per estrarre il bambino, lui mi afferra il dito indice e me lo stringe, forte come solo i bambini piccoli sanno fare! Ho un sussulto e mi scappa un grido “Ehi!”, e in quel momento realizzo che non prendiamo abbastanza sul serio il fatto che anche il feto sia competente!
Un giorno durante un cesareo un collega mi ha chiesto incuriosito “posso vedere il tuo cesareo dolce?”. Non avevo mai pensato che si potesse usare questo aggettivo in un intervento chirurgico, dove sangue e tensione fanno pensare a tutt’altro. E invece lui aveva colto un’attenzione diversa nei tempi meno convulsi, nelle caute manovre di estrazione, nel panno che mi facevo dare per aiutare la lenta fuoriuscita delle spalle evitando di stringerlo forte mentre, bagnato e liscio come era, rischiava di scivolarmi, nel modo di posare il bambino per clampare e recidere il cordone, e – perché no – nelle parole di benvenuto mentre chiedevo di pulirgli la bocca senza aspirarlo in profondità, insomma nell’accoglierlo al mondo!
Premetto che questo non riesce sempre: quando si corre in sala operatoria per salvare un bambino il clima è ben altro, ma il pensiero fisso a come tocchiamo (e, ahimè, a volte manovriamo) il bambino deve restare una costante soprattutto per evitare traumi (e non solo fisici).
Da alcuni mesi nel nostro ospedale abbiamo avviato un progetto per il pelle a pelle tempestivo anche in sala operatoria subito dopo il cesareo, affinché la mamma e il bambino possano riunirsi e ritrovarsi prima possibile, con tutti i benefici che la letteratura da tempo ci insegna. Come tutte le cose nuove, all’inizio si incontrano perplessità soprattutto logistiche (diverso posizionamento delle braccia della paziente sotto il telo sterile, presenza della ostetrica in sala operatoria per un tempo superiore al solito, etc.) ma la condivisione di questo primo tempo di vita ha un significato talmente profondo sul legame madre-bambino che occorre assolutamente impegnarsi a recuperarlo.
Sono trascorsi più di 15 anni, di parti ne ho assistiti a centinaia, e mi auguro di continuare a commuovermi in sala parto.