Paese che vai, svezzamento che trovi
Così si potrebbe dire parafrasando un vecchio proverbio: il miglio in Senegal (e nel centro Europa di un paio di secoli fa, come racconta la favola dei fratelli Grimm), l’avena in Brasile o in Irlanda, il riso in Cina come pure in Ecuador, in Sri Lanka o in Senegal, le patate in Perù, il couscous nel Maghreb e in alcune zone del sud Italia, il pane vecchio, più digeribile di quello fresco, in alcune zone dell’Albania come dell’Italia contadina di pochi decenni fa. Questa varietà ci parla dello svezzamento come di una normale fase della vita, dalla durata decisamente variabile e che ogni cultura ha risolto con i prodotti a propria disposizione. Al contrario, è tipico delle aree industrializzate, non necessariamente ricche, un approccio sanitario caratterizzato dal “ricorso a tabelle nutritive di non facile gestione”1. Se a questo aggiungiamo la magmatica informazione e l’attenzione quasi patologica che riserviamo al cibo e al nostro apparato digerente (basti per tutto pensare a quante pubblicità sono dedicate a cibi presentati come regolatori dell’attività intestinale), ecco che lo svezzamento inizia a configurarsi come un cammino irto di difficoltà e di tensioni, costeggiato da pericoli e offuscato dalla patologia.
La prima cosa che occorre quindi fare è sdrammatizzare, sbrogliare la matassa dell’inutile e apprestarsi a preparare qualche semplice pappa con il sorriso sulle labbra. Perché alla fine, pur senza negare la rivoluzione relazionale che lo svezzamento comporta né sottovalutando l’importanza della qualità del cibo di cui abbiamo parlato nel capitolo “Mangiare sano, mangiare tutti”, di questo si tratta: un cucchiaio, un poco di pappa, tanto buon umore.