CAPITOLO II

Una fotografia senza filtri

Il punto essenziale è il problema di cosa si deve fare perché il nostro fare meriti il nome di educazione.
J. Dewey


Questo per me è il capitolo più difficile e sofferto, senza il quale però le pagine che seguono non avrebbero ragione di esistere.

Alla scuola, da insegnante e da formatrice, ho dedicato molto negli ultimi vent’anni: tempo, energie e competenze, di fatto senza mai cedere del tutto all’idea che fosse un’istituzione senza speranza di essere riformata nelle sue criticità e negli aspetti problematici che sono tali per chiunque abbia a cuore il compito prezioso che assume chi, insieme alle famiglie, accompagna i bambini verso la conoscenza e la comprensione del mondo.


Oggi con questo libro mi trovo a metterci ancora un pezzo della mia mente e del mio cuore, un altro tratto di strada dedicato ai bambini che ogni giorno vivono giorni determinanti per il loro futuro insieme ai loro insegnanti.


Io continuo a sperare che ciascuno dei miei colleghi abbia voglia di fermarsi a considerare il significato profondo del proprio ruolo, senza sottrarsi ad una riflessione critica su quanto la scuola oggi mette in campo.


Il punto di partenza da cui muove il titolo di questo libro è infatti l’ipotesi, il desiderio, la necessità di una scuola diversa: ma diversa da quale e diversa perché?


Quali sono le ombre della scuola tradizionale che negli ultimi anni hanno spinto sempre più famiglie, ma anche insegnanti, a cercare alternative radicalmente “altre”?


Quali sono le ragioni che stanno dietro a dati oggettivi1, secondo cui circa un terzo degli studenti vengono bocciati almeno una volta nel corso del loro percorso scolastico e di un quinto sul totale che inizia la scuola secondaria di secondo grado ma non la termina e finisce nel grande buco nero dei dispersi, senza istruzione e senza formazione?


I numeri sono davvero sconfortanti, soprattutto se rapportati alle medie di altri Paesi europei, rispetto ai quali, pur con variabili diverse, ci collochiamo sempre tra gli ultimi posti, sia in termini di dispersione e insuccesso scolastico, sia di investimenti e competenze.


Perché, a fronte di questi dati e di quelli che rincarano le preoccupazioni rilevando in termini negativi le competenze al termine del percorso scolastico, non ci si ferma a interrogarsi se questa scuola, questo modello organizzativo e didattico, questo approccio pedagogico è efficace per il raggiungimento delle finalità per cui la scuola stessa esiste?


Come in ogni pagina di questo testo, porto qui il mio punto di vista, da osservatrice di certo privilegiata in quanto interna alla scuola come docente, periferica ad essa come formatrice ed esterna come mamma; di certo mi sostengono nell’analisi tanti elementi che mi rassicurano sul materiale a mia disposizione su cui riflettere: significativo, eterogeneo per contesti e interlocutori nonché quantitativamente considerevole.


Desidero tuttavia sottolineare il carattere soggettivo di queste riflessioni, e diversamente non potrebbe essere se è vero, come ricorda Savater citando il poeta Josè Bergamin, che “se fossi un oggetto sarei oggettivo; poiché sono un soggetto, sono soggettivo”2.


E quindi prendo posizione e seguo percorsi, verso orizzonti a cui non so rinunciare né per me stessa né per la comunità ristretta o più ampia a cui appartengo. So bene che nella scuola esistono e lavorano parecchi insegnanti appassionati del loro compito e dei bambini che sono loro affidati, persone preparate e scrupolose che però sono ancora (o sono diventati) una minoranza che fatica ad essere riconosciuta e legittimata. Spesso costoro vengono percepiti con fastidio come un gruppo di “primi della classe”, che mettono in discussione le pratiche di una maggioranza che invece è quella parte consistente che ci fa dire – insieme a molti osservatori autorevoli, ai dati internazionali, agli umori e malumori in costante crescita – che oggi in Italia una scuola diversa è necessaria per la sopravvivenza stessa dell’istituzione pubblica.