CAPITOLO III

Educazione e pedagogia
per una scuola non violenta

Una vera educazione non può essere inculcata a forza dal di fuori; essa deve invece aiutare a trarre spontaneamente alla superficie i tesori di saggezza nascosti sul fondo.
R.Tagore


È iniziato tutto da qui. Settembre 1993: Sarajevo è già sotto assedio da più di un anno, la laurea in filosofia e il bisdiploma magistrale appena archiviati; ho 23 anni pieni di ideali e di una militanza che ancora cova sotto la cenere quando un incontro mi cambia la vita: è quello con don Albino Bizzotto dei Beati i Costruttori di pace.

La prima domanda di sempre la pongo anche a lui: come posso fare la mia parte? Nei suoi occhi trasparenti e nel suo abbraccio di padre accogliente e di profeta dei nostri tempi trovo immediata risposta.


Parto, con il compagno di strada di quei primi passi nel mondo, prima come semplice volontaria, poi “promossa” responsabile, di un progetto nei campi profughi in Croazia dove vengono raccolti i profughi dalle città infuocate della Bosnia, un tempo multietnica, multireligiosa e laica.


Per un anno lavoro con bambini, donne, anziani che devono convivere in spazi angusti sapendo che i loro figli, fratelli, mariti, padri si stanno sparando l’un l’altro a qualche ora di strada da lì.


Niente aiuti umanitari ma la proposta di ripensare le loro relazioni, di vedere l’altro fuori dalle categorie della guerra e della deumanizzazione del nemico. Inizia la mia scoperta del mondo nonviolento, di Gandhi, Lanza del Vasto, Danilo Dolci, Aldo Capitini… dapprima, per l’esperienza che stavo facendo, in ottica politica e sociale e poi in brevissimo tempo per i suoi risvolti educativi.


La riflessione sulla gestione nonviolenta della relazione e della comunicazione nei gruppi, e quindi anche nel gruppo classe, tra bambini, tra insegnanti e bambini e con i genitori è forse la prima che incontro e che mi porto a casa da questa esperienza che è un po’ il segno sotto cui le altre si collocheranno; il primo abito che sento calzarmi come maestra, molto inesperta di didattica, di apprendimento, di stili cognitivi, ma spinta a seminare un approccio che aiuti gli adulti che verranno a percorrere vie diverse da quelle che possono portare a una guerra fratricida.


Sembra facile! In verità l’approccio nonviolento richiede rigore e chiarezza.


Non è passività né una generica tolleranza di qualsiasi comportamento; non è nemmeno, o non solo, la terza via tra autoritarismo e lassismo: quell’autorevolezza che rassicura gli adulti sul loro ruolo di guide sollevandoli dal fardello di esserlo in modo troppo poco democratico.


La pedagogia nonviolenta attinge piuttosto alla forte consapevolezza e conoscenza dei bisogni e dei diritti di ciascuno, a partire dai nostri; una logica alternativa a quella del braccio di ferro e della dialettica vinto/vincitore.


Il segreto, ricordo bene questo primo passaggio di comprensione, sta nell’eliminare la presunzione del giudizio che confonde persona e suo comportamento, la capacità di guardare se stessi e gli altri senza dover obbligatoriamente stabilire i torti e le ragioni o una scala graduata di essi. La capacità di parlare di sé senza squalificare l’altro, se diverso, la trasparenza nell’esprimere i propri bisogni fidandosi del fatto che chi abbiamo di fronte possa accoglierli e comprenderli e che faccia lo stesso con noi.