CAPITOLO IV

Don lorenzo milani
tra scuola e profezia

Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola.
Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare scuola,
ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola.
D. Milani, Esperienze pastorali

Don Milani è stato il primo vero maestro che posso considerare mio mentore, il primo che ho letto e incontrato sulla mia strada, muovendo i primi passi nel pensarmi a mia volta maestra.


Stranamente, ma forse non troppo, non ricordavo i contenuti di Lettera ad una professoressa, che avevo di sicuro intercettato sui banchi di scuola, nelle antologie della scuola elementare o media; ma le sue parole, e dei suoi ragazzi, da adulta mi hanno dato la prima impalcatura, quella che più risuonava dentro di me e con le motivazioni che mi avevano portato al lavoro in aula.


Già, le sue parole: così potenti, efficaci, sintetiche che qualsiasi chiosa o traduzione risulta un impoverimento, una discesa di registro e una perdita appunto della potenza e della chiarezza che le caratterizza.


L’incontro con don Milani in queste pagine, allora, sarà guidato da quelle parole, chiavi insostituibili per chi voglia entrare a Barbiana e respirarne l’aria portandosene a casa qualche buona ispirazione.


Una premessa, però. Don Milani non è un pedagogista (almeno non nel senso accademico che diamo a questo termine) né un autore che abbia elaborato un metodo didattico dopo studi o ricerche su modelli di apprendimento, strumenti per il processo di insegnamento, riflessioni di carattere cognitivo. Don Milani ha chiari pochi ed essenziali princìpi di carattere più umano, sociale e politico che di carattere pedagogico, e la sua scuola è coerente con questa visione.


La prima citazione riportata a inizio pagina fa proprio riferimento a questo, a una vocazione personale integrale volta al superamento di disparità sociali insopportabili ai suoi occhi di uomo e di sacerdote, a un amore per i ragazzi che non necessita di teorizzazioni pedagogiche o di modelli di scuola da esportare o diffondere.


Ma cosa ci raccontano don Milani e i suoi ragazzi della scuola di Barbiana nelle pagine della Lettera ai giudici e della Lettera ad una professoressa o ancora di Esperienze pastorali?


La condizione iniziale ed essenziale su cui poggia quell’esperienza è quella di riconoscere e assumere la funzione politica e sociale della scuola: la formazione di coscienze e conoscenze per essere cittadini consapevoli, capaci di fare la propria parte collocandosi e schierandosi.


Allora si legge ogni giorno il giornale, si indaga con diversi strumenti sulla storia e l’attualità, si cerca di comprendere il mondo nei suoi meccanismi più complessi, si incontrano testimoni della società civile, si prende posizione sui fatti che riguardano la comunità più ristretta o allargata, con uno sguardo consapevole su una dimensione globale e globalizzata; uno sguardo che, purtroppo, è assai carente ancora oggi.


Il manifesto, se così vogliamo definirlo, è tutto in quel motto che ancora catalizza lo sguardo non appena si entra nei locali della scuola di Barbiana e che forse dovrebbe essere anche all’ingresso delle nostre aule, nei piani dell’offerta formativa delle nostre scuole, nel contratto professionale dei docenti, dalla scuola dell’infanzia fino all’università.

Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I care”. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. “Me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario del motto fascista “Me ne frego”.

(Lettera ai giudici)

Perché essere un insegnante, per don Milani, è molto di più che fornire conoscenze sull’esistente o sul passato. Si tratta di praticare quella pedagogia dell’aderenza (termine molto efficace, coniato da Edoardo Martinelli, ex allievo di Barbiana da sempre impegnato nel mantenerne vivi lo spirito e la pratica) che fa della scuola prima di tutto una palestra di vita, il luogo che dà gli strumenti per comprendere gli alfabeti del mondo in cui ci si troverà a fare la propria parte e a trovare un proprio spazio.

Perché solo una scuola che formi menti e cuori a sentirsi parte responsabile della comunità umana può realizzare appieno il suo compito educativo, da cui quello didattico discende.

Le parole di don Milani, ancora su questo filone, sono frustate alle coscienze di chi, insegnante, entra in aula per accompagnare lungo anni importanti i bambini e i ragazzi che dovranno vivere nel mondo, in un mondo in cui le leggi sono espressione di una visione della società e della convivenza in essa. Leggi che sono condivisibili o meno solo padroneggiando una consapevolezza profonda e matura dell’antropologia propria del contesto in cui si vive.

La scuola […] è l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (e in questo somiglia alla vostra funzione), dall’altro la volontà di leggi migliori cioè di senso politico (e in questo si differenzia dalla vostra funzione.)

(Lettera ai giudici)

E, ancora più evocativa e potente, ecco l’immagine che dovrebbe farci vibrare di timore ed entusiasmo davanti all’orizzonte di senso del nostro lavoro.

E allora il maestro deve essere, per quanto può, profeta, scrutare i “segni dei tempi”, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso.

(Lettera ai giudici)

Quante volte mi sono chiesta se mi stava riuscendo di guardare davvero i miei alunni, raccogliendone i desideri, le speranze, le potenzialità; o se, ingabbiata nelle classificazioni e nelle cornici di un pensiero adulto che pensa di conoscere tutte le risposte, ho voltato lo sguardo, perdendo l’occasione di intravvedere un futuro che la mia mente e il mio cuore non sanno più tratteggiare. Ma chi più di un maestro ha questo compito profetico, di “dire prima”, di anticipare il futuro avendo come ponte privilegiato gli adulti di domani, che quel tempo vivranno da protagonisti? E perché protagonisti lo siano davvero occorre

…avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto.

(Lettera ai giudici)

Non possiamo poi dimenticare che Barbiana, come esperienza educativa e scolastica, nasce e trova continue ragioni di esistenza nella potentissima riflessione critica sulla scuola autoreferenziale, che “cura i sani e allontana i malati”, che rafforza le disuguaglianze anziché colmarle.

Negli anni dell’esperienza di Barbiana sappiamo che il riferimento era ai figli di contadini, di operai, di analfabeti di diversa collocazione e provenienza; oggi, rileggendo quelle pagine, penso in prima battuta ai tanti alunni migranti, a quello svantaggio iniziale di tipo culturale e linguistico, alla difficoltà di far passare il loro diritto a percorsi individualizzati, al rispetto di tempi e modi di apprendimento specifici, alla resistenza davanti all’evidenza di dover procedere, per equità, a modalità di valutazione che tengano conto di quelle condizioni differenti di partenza, alle bocciature predeterminate a inizio d’anno perché “non potrà certo arrivare al pari degli altri in così poco tempo”.

E per anni, come diremo meglio più avanti, osservando questi percorsi così faticosi ho sentito risuonare dentro di me il monito del priore e dei suoi ragazzi che ricordavano ai maestri e professori di allora che

Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali.

(Lettera a una professoressa)

E senza appello concludevano così

Voi dite d’aver bocciato i cretini e gli svogliati.

Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. È più facile che i dispettosi siate voi.

(Lettera a una professoressa)